Dai risultati delle elezioni abruzzesi sono scaturiti moltissimi commenti e letture ma in pochi, soprattutto tra i politici, paiono occuparsi della più grave evidenza che esse hanno confermato e incancrenito: l’astensione. Solo un elettore su due è andato a votare.
L’Italia è stata, per diversi decenni dal secondo dopoguerra in cui ha ritrovato la democrazia e guadagnato il suffragio universale, uno dei paesi europei con i maggiori livelli di partecipazione al voto. Questa inversione di tendenza, certo non recentissima, prima ci ha fatto raggiungere le medie continentali, ma ora ci sta portando a livelli intollerabili per una democrazia occidentale. La cosa più strana è che pare nessuno se ne preoccupi quando, invece, nella carestia di adesioni che attanaglia alcune forze politiche, le praterie sconfinate rappresentate dal 50% dei votanti, anche se sfruttate per un terzo o un quarto, garantirebbero la vittoria elettorale.
Tornando alle medie e alle statistiche, l’astensione è un fenomeno diffuso in tutto il vecchio Continente ed è probabile che alcuni fenomeni – dal populismo ai nazionalismi xenofobi, dall’antipolitica al “mandiamoli tutti a casa” – risultano forse più evidenti e raccolgano percentualmente consensi anche perché sta venendo meno il bilanciamento che quella larga quota di disaffezione in passato garantiva.
Personalmente – ma è una sensazione soggettiva e vale per ciò che può – penso che siano molte masse moderate a non partecipare mentre restano gli “arrabbiati” che utilizzano la scheda elettorale quale manifestazione di protesta, disagio: è la parte che confonde l’espressione di voto e la partecipazione alla politica con un post su Facebook, con una mera espressione di contrarietà; il che giustifica anche l’altissima volatilità delle percentuali, altro problema un tempo sconosciuto almeno al nostro Paese dove un punto percentuale in più o in meno su trenta faceva cantare al successo.
Le rilevazioni effettuate in Abruzzo denunciano che il maggior astensionismo lo si trova nei giovani (i cosiddetti “millennials”) e, in particolare, nella “generazione z”, i post- millennials. Si è persa l’antica fascinazione del diciottenne che partecipava finalmente alla ritualità dell’espressione di voto e, con essa, il fascino dell’impegno politico in generale, segno di un decadimento culturale che ha profonde radici nella mancanza di capacità di analisi dei testi, nello scarso desiderio di informarsi, di approfondire, nella velocità di una comunicazione che ci consente una o due decine di secondi per cogliere una notizia, fermandoci al titolo o alla sola immagine. Abbiamo, invece, un estremo bisogno di risvegliare le coscienze, riavvicinare la gente alla politica, tornare a favorire la partecipazione; di tutti, destra e sinistra, centro e estremi. Per questo non bastano quattro spot televisivi, serve un impegno che parta dall’istruzione scolastica e si dipani attraverso la vita lavorativa, culturale e familiare degli individui.
In Europa, dopo anni bloccati a parlare di spread, di conti pubblici, di sforamenti e deficit, di austerità, qualcosa – e non poco- si è mosso: Parlamento e Commissione stanno facendo per la prima volta un grande sforzo per portare più gente a votare alle prossime europee (www.stavoltavoto.eu): stanno promuovendo incontri, hanno coinvolto i giovani di Erasmus nella campagna informativa. L’obiettivo è di risollevare la cultura e l’istruzione pubblica nel Continente, favorendo un recupero delle facoltà umanistiche oggi massacrate da un Mercato che impone come unico parametro il valore economico del risultato senza tenere più in alcun conto il percorso di generazione e formazione delle idee; questo obiettivo deve rappresentare la sfida, la nuova frontiera del progetto Europa e un vaccino (mai questo termine è stato così carico di valore politico!) contro il virus dell’astensione politica. Sarebbe già un traguardo in Europa, in Italia un miracolo.