Le filiali dei colossi nordamericani vendono e incassano introiti pubblicitari in Italia e nel resto d’Europa, salvo pagare le (poche) tasse in Irlanda. Roma tenta di metterci un freno
Apple sotto inchiesta, Google, Amazon e Facebook nel mirino del fisco di mezza Europa con l’accusa di aver creato un sistema perfetto (e a prova di legge) di elusione fiscale. E’ di qualche giorno fa la notizia che la Procura di Milano avrebbe aperto un fascicolo penale per frode fiscale nei confronti del colosso di Cupertino (L’Espresso, 2013 Apple sotto inchiesta a Milano per frode fiscale di oltre un miliardo).
Il meccanismo è ben noto: le filiali dei big dell’hi-tech nordamericani vendono e incassano introiti pubblicitari in Italia e nel resto d’Europa, salvo pagare le (poche) tasse in Irlanda, procurandosi un vantaggio enorme in termini di risparmi effettivi sui carichi fiscali.
Google si vanta di avere un overseas tax rate, cioè al netto delle attività americane, di solo il 2,4% (fonte: Bloomberg, 2013).
In realtà Google e le altre big di internet non violano alcuna norma fiscale, ma si limitano a sfruttare i buchi di sistemi tributari vetusti, ideati negli anni ‘60 del secolo scorso in un’epoca pre-computer, che non si sono ancora adeguati alla rivoluzione telematica dell’ultimo decennio.
Anzi, contrattaccano ed affermano che è colpa degli Stati che non fanno niente per modificare i loro sistemi tributari; dicono che se gli Stati eliminassero le distorsioni tributarie che hanno creato, gli attori della new economy si adeguerebbero e pagherebbero più tasse(!).
Per comprendere appieno la questione, una piccola premessa.
Le imprese dei paesi industrializzati (area OCSE) pagano le imposte societarie solo nelle giurisdizioni dove dispongono di un insediamento permanente, es. società, filiale o succursale (art. 7 del Modello Ocse di convenzione contro la doppia imposizione). Quindi, ad esempio, se un’impresa ha uno stabilimento in Italia ed una filiale commerciale in Francia, dovrà pagare le tasse sia in Italia che in Francia; se invece riesce ad esportare senza appoggiarsi ad un insediamento transalpino (magari avvalendosi di un rete di agenti), pagherà le tasse solo in Italia e non anche in Francia .
E’ evidente che questo sistema fiscale, disegnato per le aziende della old economy, appare inadeguato per quelle della new economy che, sfruttando le possibilità di segregazione tra titolarità economica/ giuridica della proprietà intellettuale e di diffusione a distanza dei contenuti, riescono a collocare i profitti nelle giurisdizioni fiscali più convenienti.
In questo, anche l’Europa ci mette del suo: la pregiudiziale difesa del principio di libertà di stabilimento e di prestazione di servizi (art. 43 e 49 del Trattato CE) permette ad un’impresa extracomunitaria di collocarsi in paesi comunitari a bassa pressione fiscale e di condurre dà li i loro commerci in Europa, senza pagare alcuna imposta sul reddito nei mercati nazionali di sbocco.
Ecco quindi che Apple e Goolge sfruttano le libertà fondamentali del nostro Trattato Europeo per fatturare “liberamente” le loro vendite in Europa dall’Irlanda.
A differenza di quanto normalmente si ritiene, la scelta della giurisdizione irlandese non dipende tanto dalla bassa aliquota sugli utili societari (12,5%), quanto da regole favorevoli nel calcolo delle basi imponibili e da relazioni privilegiate con alcuni paradisi fiscali.
In gergo lo schema fiscale utilizzato da Apple e Google è chiamato “double irish sandwich”.
Il giro funziona così: la capogruppo americana conferisce i diritti di sfruttamento della proprietà intellettuale destinata al mercato europeo (EU IP) ad una prima società irlandese (Alfa) la quale a sua volta ne concede lo sfruttamento ad una seconda società irlandese (Beta). Beta è quella che fattura i consumer europei e riceve a sua volta fatture passive per royalties da Alfa. Di fatto Beta non paga imposte in Irlanda, visto che le royalties passive compensano i ricavi delle vendite. Ma nemmeno Alfa paga imposte, in quanto questa società pur essendo costituta in Irlanda, è operativamente gestita dalle Bermuda (o dalle Cayman) e pertanto per il fisco irlandese non è un soggetto passivo d’imposta. Di fatto tutti i ricavi fatturati da Beta ai consumers europei finiscono alle Cayman/Bermuda sotto forma di royalties.
Questo schema consente oltre ad una pressoché esenzione fiscale in Europa (i redditi della società irlandese vengono annullati da una contro-fatturazione della società residente alla Cayman, dove non si pagano imposte) sia negli USA (il reddito imputabile ad una società di diritto irlandese, ancorché fiscalmente residente nelle Cayman, sfugge alla U.S. corpotate tax).
Se invece dell’Irlanda, i due colossi americani avessero collocato la loro cabina di regia europea in Italia od in Francia, oltre a scontare una maggiore aliquota societaria (31,4% in Italia, 33,33% in Francia), il reddito prodotto non avrebbe potuto essere opportunamente “deviato” verso i noti paradisi fiscali, in forza di una più ristrettiva normativa di contrasto a queste giurisdizioni.
Lo schema descritto appartiene certamente ai fenomeni di elusione fiscale ai quali la UE e l’OCSE stanno cercando di reagire, ma con lentezza e difficoltà.
I rimedi annunciati in alcuni recenti documenti delle due organizzazioni internazionali (Comunicazione della Commissione Europea “An Action Plan to strengthen the fight against tax fraud and tax evasion (Com 2012 n.. 722) e l’Action Plan contro la “Base Erosion and Profit Spliting” – BEPS dell’OCSE di Luglio 2013) non appaiano risolutivi: si punta all’armonizzazione delle normative interne, allo scambio di informazioni tra stati (il meccanismo FATCA), all’affinamento di complesse e vetuste normative (transfer pricing e delle CFC) che non hanno dato finora i risultati sperati. Senza parlare del fatto che i tempi sono lunghi: la sola elaborazione delle proposte dell’Ocse è attesa per dicembre 2015(!).
Insomma, stenta ad affermarsi l’idea di una rivoluzione copernicana in capo fiscale, un disegno organico di riforma dei sistemi tributari moderni per adeguarli alla nuova economia telematica.
In questo contesto ha suscitato attenzione e scalpore, anche nella stampa internazionale (Forbes 2013, Italy Proposes An Entirely Illegal Google Tax; Reuters, 2013 Italy eyes ‘Google Tax’ to help fix public finances) il disegno di legge delega di riforma del sistema fiscale (disegno di iniziativa parlamentare approvato dalla Camera dei deputati il 25 settembre 2013 e pendente al Senato, atto all’esame del Senato n. 1058), riproposto in parte sotto forma di emendamento alla Legge di Stabilità 2014, che all’articolo 9, comma 1, lettera i), prevede l’impegno al governo di “prevedere, in linea con le raccomandazioni degli organismi internazionali e con le eventuali decisioni
in sede europea tenendo anche conto delle esperienze internazionali, di sistemi di tassazione sulle attività transnazionali, ivi comprese quelle connesse alla raccolta pubblicitaria, basati su adeguati meccanismi di stima delle quote di attività imputabili alla competenza fiscale nazionale” .
Il contenuto tecnico-normativo non tradisce la potenziale rivoluzione fiscale sottostante.
Se questa norma fosse attuata, segnerebbe l’anno zero della “fiscalità post-informatica”, il momento in cui il mondo globale di internet demolisce i polverosi palazzi dei ministeri delle finanze posti a difesa delle base imponibili nazionali, la nascita di nuovo modello di tassazione non più basato sul concetto che le tasse si pagano nello stato dove “si produce” ma in quello dove “si consuma” (rendendo di fatto convergente il settore delle imposte dirette ed indirette).
Nel futuribile sistema tributario delineato nella proposta italiana della web tax, è facile immaginare, in un lungo periodo, la progressiva convergenza delle regole di determinazione delle base imponibili nazionali, la nascita di un nuovo ordine sovranazionale in cui, oltre alla politica monetaria, verrebbero accentrate a livello europeo anche le leve della politica fiscale, la mutualizzazione dei gettiti erariali e la loro ripartizione per aree geografiche omogenee, lasciando nella libera disponibilità degli stati nazionali la sola fissazione delle aliquote fiscali di riferimento.
In definitiva la proposta italiana di una web tax comunitaria appare “più europeista” di coloro che la ritengono in contrasto con le libertà economiche del Trattato UE, ma tutto lascia presagire che è politicamente prematura e che non vedrà (per qualche decennio) ancora la luce.
Gianluca Marini
gianluca.marini@mazars.it