Quando in Italia si sono aperte le urne dopo il voto del 4 marzo non ci sono state reazioni particolari in Europa e nemmeno sui mercati. Il risultato era in buona parte atteso e, come si dice, già “scontato”. Non ci sono stati grandi movimenti neanche quando due movimenti politici fortemente antisistema come Lega e Movimento 5 stelle hanno iniziato il loro intenso negoziato per arrivare alla formazione di un governo, dopo una settantina di giorni dal voto. I commissari europei, incalzati dai giornalisti, hanno auspicato, e in alcuni casi espresso la certezza, che l’Italia averebbe continuato a rispettare i suoi impegni, anche con Luigi Di Maio e Matteo Salvini alla guida.
Poi grazie all’Huffington Post sono arrivate nelle redazioni e sui tavoli degli investitori le notizie sul programma di governo. Un documento definito poi “vecchio” (di due giorni?) dai compilatori, e lì l’effetto c’è stato. Per una serie di fattori non esclusivamente italiani la Borsa di Milano ha iniziato a perdere, ed in particolare lo hanno fatto i titoli della galassia controllata da Silvio Berlusconi, ma soprattutto lo spread ha ricominciato a salire, sensibilmente.
Anche dare dell’”eurocrate non eletto da nessuno” a un commissario europeo, quando poi il prossimo anno il tuo governo, se nascerà e reggerà, dovrà nominare il rappresentante italiano nella Commissione europea, non aiuta nella credibilità di cui si ha bisogno per cambiare le regole europee che si contestano. L’Italia non è la piccola Ungheria o la piccola Austria, è un Paese importante, il cui peso economico e politico può minare l’insieme dell’Unione, l’attenzione è molto più alta. Ispirarsi al premier ungherese Orban può essere legittimo, ma non se ne possono mutuare le politiche, le “misure” e i ruoli dei Paesi sono diverse.
Lega e 5 Stelle possono, anzi devono, scrivere il programma di governo che preferiscono, se riescono, nel rispetto di chi li ha votati. Ma devono ricordare che non stanno facendo un esercizio avulso dalla realtà nella quale l’Italia, ed ogni altro Paese, si muove. Provocare una crescita dello spread (una delle ragioni per le quali Silvio Berlusconi capitolò nel 2011) vuol dire far saltare ogni programma di spesa che le due forze politiche vogliono mettere in campo.
Se il servizio del debito cresce ci sono meno soldi da spendere, diventa più difficile trovare credito sul mercato, e se ci sono meno soldi da spendere ci sono meno cose che si possono fare.
Si può ambire a tanti obiettivi, anche davvero rivoluzionari, ma non lo si può fare ignorando le condizioni di partenza. La mossa di chiedere alla Bce di cancellare 250 miliardi di debiti, oltre che molto naive in sé, dà anche l’impressione che non si arrivi a pagare i propri debiti, il che non aiuta a trovare i soldi che servono. Fare un programma di spesa che non ha coperture adeguate, credibili, non tranquillizza gli investitori, e neanche i cittadini che hanno qualche risparmio.
Il problema non è insomma tanto dove si vuole andare, gli obiettivi sono stati chiariti agli elettori che hanno scelto per chi votare, ma come ci si vuole arrivare. Ci vuole maggior cura, bisogna tener presente che non esistono risposte semplici a problemi complessi, e che l’Italia, per quanto sia un Paese grande, importante e relativamente ricco, non può ignorare alcuni meccanismi, che sono evidenti e che potrebbero in breve tempo schiacciarla, impedendo di realizzare qualsiasi politica forse anche giusta, forse anche innovativa.