Di Luca Jahier su Vita.it
Il premier Enrico Letta ha recentemente rilasciato una lunga intervista ai principali quotidiani europei (per l’Italia La Stampa del 1 novembre u.s.) nella quale afferma senza mezzi termini che o si riescono a combattere i crescenti populismi o l’Europa verrà distrutta. E afferma che per farlo l’Europa deve alzare la bandiera del lavoro per i giovani e di una risposta unita e rinnovata sul tema dell’immigrazione. Ritenendo che la soglia di rischio delle prossime elezioni europee sia avere il Parlamento più antieuropeo della storia del dopoguerra, con il 25% degli elettori che premiano le diverse forze nazionaliste e populiste, Letta afferma che del tema si parla ancora troppo timidamente nei diversi paesi europei e ritiene che la battaglia dei prossimi mesi sia l’Europa dei popoli contro l’Europa dei populismi. So bene che le sua non sono solo parole, ma fermi convincimenti e non certo di oggi. Per questo gliene sono grato. Ritengo davvero che ogni mese che passa quanto è stato faticosamente costruito in 60 anni sia oggettivamente sempre più a rischio e la crescita della rabbia si cumuli al crescere degli “anti”.
L’ultimo Eurobarometro del Parlamento europeo reso pubblico lo scorso 18 ottobre, pochi giorni prima dell’ultimo fallimentare Consiglio europeo, dice con inusitata chiarezza che solo il 31% degli Europei crede ancora che l’Unione europea sia la soluzione , mentre il 60% degli europei (con ben poche eccezioni) ritiene che l’UE sia il problema o non sia più la soluzione. Un dato tragico. Mentre la politica continua a trastullarsi in troppi giochi tattici e le soluzioni di sistema messe in campo finora non solo non sembrano dare i risultati attesi, ma, generalmente parlando, hanno in moltissimi casi aggravato le condizioni di crisi sociale e reso più difficile la ripresa economica. Basti pensare al contatore dei disoccupati europei, che non cessa di crescere ogni mese (ora stiamo andando verso i 27 milioni, con un numero rilevantissimo di giovani ), così come quello delle persone a rischio povertà (ormai un quarto delle famiglie europee) mentre nella stragrande maggioranza dei paesi le Piccole e medie imprese, che sono il nerbo dell’economia del continente, continuano a fallire in numero maggiore di quelle che vengono aperte e tutte hanno problemi strutturali di accesso al credito, che da sei anni non accenna a risolversi.
Persino in un paese come la Germania, il Presidente degli industriali tedeschi ammonisce il nuovo Parlamento a non azzardare troppe innovazioni sociali, perché le ragioni di crisi e di debolezza del sistema economico e delle finanze tedeschi è quantomai preoccupante anche li, e probabilmente la stessa Commissione presenterà alcuni rilievi sugli squilibri di sistema nelle sue annotazioni sulla Legge di stabilità tedesca, nelle prossime settimane. E’ inutile cincischiare ancora, perché salvo la Germania dove il partito al Governo ha vinto le ultime elezioni e per ora gli antieuropeisti sono stati largamente contenuti, in molti altri paesi non è certamente il caso, basti citare il Belgio, l’Ungheria, la Gran Bretagna, la stessa Francia dove molti sondaggi riservati danno il FN di Marine Le Pen come possibile primo partito, e l’Italia, dove solo basandosi sulle ultime elezioni politiche, siamo già ad oltre il 30% di partiti antieuropei (Grillo e la Lega), cui si aggiungono frange della sinistra e una buona parte della rinata Forza Italia, che in fondo torna a sentimenti mai sopiti nel suo seno.
Per evitare il disastro, c’è bisogno urgente di cambiare registro. Sin dalle prossime settimane e dai mesi residui che restano ai governi, per cercare di rovesciare questa pericolosa deriva. In primis, è necessario prendere decisioni che producano risultati, che escano dalla complicazione delle sigle e tornino a parlare alla vita reale delle persone, delle famiglie e delle imprese. Basta guardare ancora cosa dice il citato Eurobarometro. I cittadini europei interrogati su quali dovrebbero essere le principali priorità del prossimo bilancio europeo, dicono: 50% sicurezza sociale e occupazione; 48% crescita economica, 43% educazione e formazione; 41% salute e assistenza. Più chiaro di così…! E allora che ci vuole a fare un reale fondo di garanzia europea per il credito alle PMI, che consenta alle 3 milioni di PMI che in Europa sono oggi censite avere un potenziale di crescita di poter investire e creare nuovi posti di lavoro e ricchezza (5 nuovi posti per ciascuna in un anno fanno 15 milioni di posti di lavoro…. ). Ovvero incrementare gli investimenti sulla “economia verde”, che tutti ritengono in grado di produrre 20 milioni di posti di lavoro stabili nei prossimi 5 anni. O ancora investire sulla creatività e l’innovazione delle imprese sociali, che in tutta Europa sono cresciute in media del 30% in termini di fatturato e occupati in questi anni di crisi, dimostrando di sapersi fare carico seriamente della crisi generale delle politiche sociali di tutto il continente. Ma tutto ciò non basta, gli europei hanno bisogno di capire e percepire con chiarezza una direzione politica per i prossimi anni, con mete strategiche e che affrontino seriamente il nodo di ciò che questa Unione vuole essere e che ruolo vuole giocare nel mondo nei prossimi dieci anni.
Non si può solo vivere di aggiustamenti delle grandi politiche del passato e di contenimento dei deficit di bilancio! Io vedo con chiarezza 4 grandi politiche europee che possono diventare l’elemento trainante delle nostre economie e società e sono chiaramente comprensibili a tutti. In primo luogo l’Europa ha bisogno di una strategia di sviluppo e crescita, che sia anche dotata di strumenti adeguati e che bilanci investimenti sull’industria, sulle reti, ma anche sulle infrastrutture sociali. Si chiama Europa 2020. Smettiamo di tenerla nel cassetto e facciamone un politica chiave e comune sul serio, come fu in passato la costruzione del mercato interno o la Politica agricola o la politica di coesione regionale. Una prima occasione c’è subito, in queste settimane: l’analisi delle leggi di Bilancio degli Stati membri affidata dal Consiglio alla Commissione non si faccia solo sotto la lente della tenuta dei conti pubblici, ma anche e soprattutto di quelle chiavi, dando così il senso di una svolta. Poi c’è il tema dell’energia, con tutte le sue implicazioni in termini di sicurezza, di rapporti internazionali e di diversificazione delle fonti, di risparmio e della riduzione degli sprechi che restano immensi. Un business che da solo può cambiar e il volto del continente. Poi c’è il Mediterraneo, dove abbiamo perso 20 anni e di cui ci accorgiamo solo quando c’è la Libia da bombardare, qualche barcone che affonda nel mare nostrum, o il rischio di guerra in Siria. Li oggi ci sono i rischi maggiori per la nostra sicurezza, ma anche il nostro futuro. E infine l’opportunità aperta dal nuovo negoziato commerciale con gli Stati Uniti, che a molti fa paura, ma che invece rappresenta l’unica vera opportunità perché i nostri sistemi democratici ed economici possano ancora giocare un ruolo leader nel mondo multipolare, rilanciando potenzialità di crescita e di innalzamento degli standard sociali e ambientali propri della nostra tradizione, su scala planetaria.
Non credo di essere un visionario e neppure un illuso se dico che è su questo terreno che devono ricollocarsi le forze politiche che vogliono dare battaglia per una Europa dei popoli, le forze sociali che vogliono dare voce ad una seria partecipazione dei cittadini e non solo farsi eco di qualche interesse settoriale o di qualche pur ragionevole e motivata protesta, assieme al ruolo cruciale di stimolo e di costruzione delle opinioni pubbliche rappresentato dai media. Solo uno sforzo generale e collegiale delle classi dirigenti di tutta Europa, a partire da un po’ più di coraggio e di chiarezza dei leader dei diversi paesi europei potrà raccogliere la sfida. E così si potrà fare appello alle grandi risorse che in questo continente ci sono ancora, perché escano dalla proprie mille riserve e fortini e si rimettano in gioco, rischiando e generando così nuova fiducia e scommessa sul nostro comune futuro. Ricordando una frase che Papa Francesco ripete spesso, “Non lasciamoci rubare la speranza”, mi viene da ricordare che una interpretazione interessante vede la parola “sperare” derivare dalla radice di una lingua indoeuropea e significa “tendere” a qualcosa. Dunque, la speranza richiama a una tensione verso qualcosa, formulata con precisione e cui si punta con una certa intensità. La speranza che non dobbiamo dunque farci rubare, non può essere attesa inoperosa, ma azione vigorosa, vigile e coraggiosa.
Luca Jahier