Roma – Se l’italiano Luca Jahier questa mattina è stato eletto alla presidenza del Comitato economico e sociale europeo (Cese) “significa che si è lavorato bene in Europa”, dice Tiziano Treu, ex ministro del Lavoro, poi dei Trasporti e attuale presidente del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), commentando la notizia. “Magari, avere un italiano lì darà più equilibrio anche al modello sociale europeo” troppo nordico ed esclusivo, auspica Treu in una intervista a Eunews, in cui parla anche del ruolo delle istituzioni come il Cnel e il Cese, e difende la scelta di introdurre la flessibilità nel mondo del lavoro quando era ministro.
Presidente Treu cosa vuol dire avere un italiano alla guida del Cese?
Significa che si è lavorato bene in Europa, dove spesso gli italiani non sono molto attivi. Invece, al Cese, i nostri rappresentanti datoriali e sindacali sono sempre stati attivi. Io li ho visti in funzione, il Cnel ha rapporti costanti. Ultimamente hanno fatto questa specifica commissione sulle nuove professioni, una splendida iniziativa. Si sono guadagnati il rispetto e hanno mostrato competenza. L’elezione di Jahier ne è il riconoscimento. Spesso si dice che quelli bravi sono solo del centro-nord Europa. Noi dimostriamo che possiamo essere bravi anche noi. Magari avere un italiano lì darà più equilibrio anche al modello sociale europeo, non solo super-nordico ma più inclusivo
Che ruolo ha oggi il Cese e di cosa ha bisogno, se ha bisogno di qualcosa, per essere più efficace?
Questa istituzione è un po’ la proiezione europea di altri consigli economici e sociali presenti in quasi tutti i Paesi, come il nostro Cnel. È il segno che partendo dalle politiche economiche sociali nazionali occorre dare una dimensione economica sociale anche all’Europa. Il Cese è l’istituto dove sono presenti tutte le rappresentanze sociali dei vari gruppi: sindacati, datori di lavoro, società civile organizzata. È un organismo riconosciuto dai trattati, quindi dentro la struttura dell’Unione europea, e ha un ruolo importante, perché viene sentito obbligatoriamente dalle istituzioni dell’Unione sulle grandi questioni. Noi del Cnel italiano aspireremmo ad avere le stesse prerogative. Loro sono parte della programmazione europea, del semestre europeo che dà le grandi linee economiche e sociali, e sono anche molto rispettati. Fanno un’attività importante di razionalizzazione della vita politica. Spesso si fanno proposte economiche senza grandi analisi, invece loro, affrontano tutte le questioni con esperti, sentendo le parti dei vari Paesi. I loro dossier sono veramente esemplari, e spesso anche brevi e facili da leggere.
Nel processo legislativo, però, l’incisività di quel lavoro spesso è limitata. Perché?
È vero, si può fare di più. Diciamo che, così com’è, l’Europa sociale non soddisfa nessuno di noi. Anche gli europeisti, da Macron ai nostri italiani, dicono che l’Europa, così com’è, non va bene perché non dà spazio agli aspetti sociali. È un vizio dell’Europa, non del Cese. E non aver dato queste risposte è uno dei motivi delle ribellioni e della disaffezione dei cittadini verso l’Europa, del nascere di movimenti antieuropei. È un problema dell’Europa. Il Cese contribuisce per quello che può. Se gli organismi gli dessero più retta, considerassero di più i suoi dossier ben fatti, con proposte realistiche di riforma, sarebbe meglio.
Come si possono far pesare di più quei pareri?
Bisognerebbe farli conoscere di più. Voi siete una testata con giornalisti immagino esperti, conoscete e citate quei dossier nei vostri articoli, ma in realtà, i cittadini europei – anche quelli colti – non conoscono abbastanza. L’opera di diffusione delle proposte europee è fondamentale per creare una coscienza europea. Come Cnel partecipiamo, insieme con altri centri, a un grande bando per attività di comunicazione dell’idea di Europa e della diffusione delle buone pratiche, perché per formare la coscienza di cittadini nazionali ci sono voluti secoli, e ora bisogna che anche attraverso la comunicazione dei nostri enti si migliori la coscienza di cittadini europei.
Di cosa ha bisogno l’Ue per trovare una crescita stabile che riassorba l’elevata disoccupazione, e per tutelarsi dalle ricadute sociali di futuri choc economici?
Servono politiche economiche favorevoli alla crescita. Purtroppo, nel Patto di stabilità e crescita, la stabilità è stata di gran lunga preferita alla crescita. Negli ultimi tempi, poi, le politiche di austerità hanno poco aiutato. Non dico niente di originale, ma bisogna che soprattutto i tedeschi seguano più politiche di sostegno alla crescita e a una crescita sostenibile. Fino adesso l’unico che ci ha aiutato è stato Draghi, ma l’Europa ha qualcosa che deve cambiare. Il documento dei quattro presidenti e il pilastro sociale, proprio perché dicono che la politica sociale non può sostenersi da sola se non c’è una politica economica favorevole, sembrano segnali positivi. Sulla protezione dagli choc, l’Europa ha iniziato a fare piccole cose con un fondo per le vittime della globalizzazione, con quello per gli indigenti. Comincia a lenire le sofferenze dei cittadini europei più colpiti. Poca roba però. Bisognerebbe fare di più. L’Italia aveva proposto questo fondo per la disoccupazione, integrativo alle politiche nazionali, con fondi europei. Sarebbe un segnale di solidarietà molto importante nei confronti di chi soffre di più, ma è ancora fermo lì. Ovviamente bisognerebbe cambiare gli equilibri all’interno del bilancio europeo.
Lei era pronto a sacrificare il Cnel perché fosse approvata la riforma costituzionale del 2016.
Sì, avevamo proposto una riforma dell’ente e non di sopprimerlo. Poi, di fronte alla riforma costituzionale complessiva, ero disposto al sacrificio. È andata male lo stesso.
Ora che è presidente del Cnel, cosa ritiene serva all’ente per non essere percepito come il carrozzone da rottamare descritto in quella campagna referendaria?
Intanto non né più un carrozzone, perché ormai nella lotta agli sprechi della politica tutte le cariche del Cnel sono gratuite. Non possiamo più venire accusati di essere un luogo in cui si va per prendere quattro soldi e occupare una poltrona. Non è poco. Al Cnel va chi ci crede. Ora le parti sociali hanno mandato i nuovi rappresentanti e sono persone operative, mentre prima si mandava lì gente a fine carriera. Già questo dimostra che il Cnel è più tonico e operativo.
Per fare un salto in più di cosa c’è bisogno? Basterebbe rendere obbligatori i pareri del Cnel su alcune questioni, come lei invidia al Cese?
Sì questa è una proposta che avevamo fatto alla fine della scorsa consiliatura e rimane sul tavolo. Però, se anche i nostri pareri, che già esprimiamo in maniera facoltativa, diventassero obbligatori come quelli del Cese, non faremmo grandi progressi se poi ce li chiedessero, formalmente e obbligatoriamente, ma continuassero a ignorarli. Penso che i pari, visto che anche quelli obbligatori non sono vincolanti, debbano avere una forza persuasiva perché sono fatti bene, perché mobilitano la gente. Se il Cnel riesce a fare cose serie, come fa anche il Cese, e a mobilitare le persone sui grandi temi, come la disoccupazione, l’innovazione, la formazione di alta qualità, anche i pareri che diamo diventano più autorevoli, senza bisogno di renderli obbligatori.
Da ministro del Lavoro, nel 1997, lei introdusse il lavoro interinale e i primi contratti atipici. Guardando ai dati sull’occupazione, non sembra che la strada della precarizzazione intrapresa allora stia funzionando. Bisogna ripensare quelle scelte?
Allora era un altro mondo. E comunque, il lavoro interinale o somministrato di cui mi si attribuisce la paternità è più tutelato di tanti altri. Le agenzie controllate, quelle serie, hanno ormai un sistema di welfare, di sostegno, anche per lavoratori che fanno missioni temporanee. Il problema della precarietà è più grave nei contratti a termine brevi, nei contratti a termine su piattaforma, nei lavori occasionali. Io non credo si possa mandare indietro l’orologio. Per vincere la precarietà, certo, ci vogliono delle regole. Per esempio, per i contratti a termine che sono i più esagerati, occorre non solo metterci dei limiti e dei controlli, ma occorre anche renderli più costosi, perché la flessibilità si deve pagare. Se i contrati a termine costano meno di quelli a tempo indeterminato è un controsenso. Però non è che la legge da sola può combattere la precarietà. Ci vuole un’economia più stabile. Se l’economia è precaria e le aziende non hanno prospettive stabili, non investono e i piccoli imprenditori sono dei poveracci anche loro, non possono portare stabilità ai loro dipendenti. Quindi va bene le regole, combattere gli abusi di precarietà, ma dietro ci vuole una politica di crescita stabile che abbia un minimo di equilibrio, un po’ di amministrazione fatta bene e più formazione, che sarà sempre più richiesta per i lavori futuri.