Bruxelles – Mentre l’ombrello di sicurezza dello zio Sam è sempre più in dubbio, l’Unione europea punta a ridurre la frammentazione nel campo della difesa. O almeno ci prova. Le cancellerie discuteranno nei prossimi giorni la creazione del Meccanismo europeo per la difesa, un fondo volto ad “europeizzare” questo settore strategico aprendo alla cooperazione coi Paesi extra-Ue. Sul tavolo soprattutto gli appalti congiunti, ma resta da sciogliere il nodo delle risorse.
Quando si riuniranno per un incontro informale a Varsavia alla fine di questa settimana, l’11 e il 12 aprile, i ministri delle Finanze dei Ventisette saranno affiancati anche dai loro omologhi di Regno Unito, Norvegia e Svizzera. Il nodo principale sarà l’istituzione di un fondo ad hoc per finanziare il salto di qualità nella difesa che tutti i Paesi europei – dentro e fuori l’Unione – riconoscono ormai come necessario, in una fase storica in cui il sostegno degli Stati Uniti non può più considerarsi assicurato a prescindere.
L’obiettivo è coordinare gli sforzi e porre le basi per quella che in prospettiva dovrebbe diventare l’industria militare europea. Il primo mattone sarà un Meccanismo europeo per la difesa (Edm nell’acronimo inglese) che, sul modello del Meccanismo europeo di stabilità, prenderà la forma di uno strumento esterno alle strutture giuridiche Ue. Ma a differenza del famigerato Mes, sarà aperto all’adesione di Paesi terzi e non richiederà la partecipazione di tutti e 27 gli Stati membri, per evitare di esporlo ai veti nazionali.
L’idea arriva da uno studio del think tank economico Bruegel, con sede a Bruxelles, commissionato proprio dalla presidenza polacca del Consiglio Ue. In effetti, di difesa continentale si parla ormai da mesi e la stessa proposta di un fondo pan-europeo per finanziarla è stata avanzata recentemente anche dal primo ministro britannico Keir Starmer. In sostanza, l’idea è che per mettere l’Europa nelle condizioni di rispondere efficacemente alle minacce nel mutato contesto geopolitico bisogna invertire le abitudini economiche e strategiche consolidate da decenni. Nel concreto, questo significa diverse cose.

Primo: serve scala. Tradotto, serve ridurre la frammentazione tanto dell’industria quanto del mercato europei, che seguono dei “pregiudizi nazionali” a partire dagli appalti, e accelerare verso la creazione di una sorta di mercato unico della difesa che poggi su una solida base produttiva. Il problema è che, finora, le industrie belliche dei Ventisette hanno sempre ragionato secondo schemi nazionali finendo per rimetterci sia in termini di interoperabilità sia di duplicazione dei costi.
“È essenziale una maggiore cooperazione per colmare i divari tecnologici e ridurre i costi di riarmo“, si legge nel documento di Bruegel. Se non faranno acquisti comuni, ammonisce il think tank, le cancellerie europee saranno in difficoltà nel gestire la spirale inflattiva che si innescherà con tutti i governi intenti ad aumentare i propri bilanci di difesa. Un rischio che si può mitigare tramite “la combinazione di mercati integrati e appalti su scala più ampia“, il che peraltro “aumenterebbe la concorrenza e faciliterebbe l’ingresso di nuove imprese del settore”, nel rispetto dell’ortodossia economica di Bruxelles.
È vero che non si parte da zero. A livello comunitario esistono già una serie di strumenti e programmi – tra cui il Fondo europeo per la difesa (Edf), il regolamento sulla produzione di munizioni (Asap) e il programma di appalti congiunti (Edirpa) – mirati a rafforzare la produzione di asset strategici nonché, naturalmente, a finanziarla. Ma, come evidente nel caso del piano ReArm Europe (che scioglie le briglie dei governi consentendo ai Paesi membri un indebitamento virtualmente illimitato), non si è ancora riusciti a superare la logica nazionale.
Inoltre, vanno colmate le lacune tecnologiche per produrre sistemi d’arma made in Europe senza dipendere eccessivamente dai fornitori esteri, a cominciare da quelli a stelle e strisce (anche se questa dipendenza sarà parecchio difficile da risolvere). Quest’ultimo aspetto riguarda soprattutto la produzione autoctona dei cosiddetti abilitatori strategici, ad esempio i satelliti militari (non solo i pezzi ma la stessa tecnologia che li fa funzionare). Altri punti menzionati da Bruegel riguardano l’ampliamento del ruolo dell’Agenzia europea per la difesa (Eda) e il rafforzamento delle cooperazioni strutturate permanenti (Pesco), che permettono agli Stati membri che lo desiderano di approfondire la collaborazione in ambiti specifici senza doversi muovere a 27.

Ora, come sempre il nodo chiave è quello dei finanziamenti. Quale dotazione dovrebbe avere l’Edm, chi metterebbe i soldi, e come funzionerebbero gli esborsi del fondo? Con ogni probabilità, le discussioni su questi aspetti si prolungheranno, data la congiuntura particolarmente difficile. Qualche idea però c’è già, come ad esempio quella di recuperare le risorse necessarie tramite prestiti congiunti sui mercati dei capitali.
La partecipazione finanziaria dovrebbe essere basata su una qualche chiave di contribuzione che tenga conto delle dimensioni economiche nazionali, delle spese militari o degli asset strategici già in possesso dai vari Paesi. Le quote di capitale definirebbero peraltro anche il peso relativo dei partecipanti in termini decisionali. Tra le ipotesi ci sarebbe anche quella di concedere prestiti agevolati ai “membri in prima linea” (quelli sul fianco orientale della Nato, presumibilmente).
“L’Edm potrebbe essere proprietario di strumenti strategici e addebitare” ai partecipanti “le tariffe d’uso, riducendo l’impatto di bilancio del riarmo”, si legge nello studio. Andranno poi prese delle misure specifiche per evitare di aprire la porta tanto ad aiuti di Stato indebiti quanto alla reiterazione di logiche di preferenze nazionali che andrebbero ad avvantaggiare i contraenti nazionali a scapito di quelli stranieri.
Di questi e altri temi legati alla Difesa si parlerà il 15 aprile a Roma nell’evento della serie Connact “Difesa comune europea: finanziamenti e integrazione industriale“.