Nei “dieci giorni che sconvolsero il mondo” di poche settimane fa, iniziati con la cacciata di Zelenski dallo Studio Ovale e dal cambio di passo della politica americana sullo scenario ucraino e non solo, e proseguiti con l’ambiziosa proposta ReArm Europe, subito suggellata dalla spettacolare decisione tedesca di far saltare, con qualche artificio istituzionale, il tetto alla spesa pubblica iscritto in Costituzione per annunciare un piano di investimenti di 1000 miliardi, di cui la metà per la difesa, il Consiglio europeo del 20 marzo doveva rappresentare il punto culminante della comune convinzione a procedere nella direzione voluta.
Senonché, a ben guardare, l’”effetto annuncio” di Ursula von der Leyen rischia di non essere suffragato da un’entusiasta adesione al progetto iniziale, tanto che i capi di stato e di governo si sono presi un adeguato tempo di riflessione, in un contesto reso complesso da trattative russo-americane che passano sopra la testa dei paesi europei, Ucraina compresa, e dalla minaccia dei dazi commerciali.
Il primo a barcollare è stato il nome stesso del progetto di destinare 800 miliardi in quattro anni a spese supplementari per armamenti, per avvicinarsi ai nuovi target rispetto al PIL chiesti a gran voce da Donald Trump e che il Vertice NATO di fine giugno dovrebbe decidere.
ReArm Europe non è apparso, in realtà, fin dall’inizio l’acronimo più felice partorito dalla Commissione europea, tanto che si è prudentemente deciso di rinominarlo nell’anonimo Readiness 2030, capisca chi potrà.
Ma è sulla ciccia che sono subito apparse le difficoltà più evidenti, rese palesi dalla doppietta tedesca: grazie alla “general escape clause” e cioè la sospensione del Patto di Stabilità, ll grosso dei soldi lo devono metterli gli Stati membri (che lo potranno). Quelli, ad esempio, con un debito inferiore al 60% nel rapporto debito/PIL e che hanno potuto, in quarant’otto ore, mettersi in regola anche sul piano interno. Più difficile farlo se si ha un debito di oltre il 130% del PIL-
Vi sarebbero poi i 150 miliardi di prestiti promessi da Ursula von der Leyen sulla base della garanzia offerta dal bilancio comunitario. Ma anche in questo caso, nuovi prestiti graverebbero sui bilanci nazionali perché i frugali, Germania in testa, respingono ogni ipotesi di defense bonds, o di crediti come nel caso del Recovery Fund.
Una dicotomia, insomma, che vede i paesi del Sud, fortemente indebitati, guardare in cagnesco un piano, almeno per ora, dal forte accento tedesco.