Bruxelles – Il cosiddetto “piano Kallas” per sostenere l’Ucraina aggredita non convince del tutto. A storcere il naso sono soprattutto Italia e Francia, seppur per motivi diversi. Dalla capitale europea, Antonio Tajani porta le perplessità del governo di Roma: la proposta dell’Alta rappresentante è ancora troppo fumosa e il Belpaese dovrà già investire ampie risorse nella propria difesa nel breve periodo, dunque bisogna andarci coi piedi di piombo prima di annunciare nuovi esborsi a livello comunitario.
La proposta di Kallas
L’iniziativa messa sul tavolo la scorsa settimana dalla capa della diplomazia a dodici stelle, Kaja Kallas, parla di un fondo ad hoc per l’Ucraina da utilizzare per sistemi di difesa antiaerea, missili, droni, caccia da combattimento e munizioni d’artiglieria, ma anche addestramento per le truppe di Kiev e il contributo degli Stati membri alle garanzie di sicurezza per l’ex repubblica sovietica.
Secondo l’ex premier estone c’è “un ampio supporto politico” tra le cancellerie Ue sulla sua proposta. Parlando ai giornalisti in una brevissima conferenza stampa al termine del Consiglio Affari esteri tenutosi stamattina (17 marzo) a Bruxelles, l’Alta rappresentante ha ammesso che “c’è ancora del lavoro da fare” per mettere a punto il testo legale dell’iniziativa, ma ha ribadito che intorno al tavolo c’è contezza della necessità di mantenere e potenzialmente aumentare il sostegno al Paese aggredito. Soprattutto nell’eventualità, tutt’altro che remota, in cui dovessero venir meno gli aiuti statunitensi. Il tema verrà ripreso dai capi di Stato e di governo dei Ventisette, che si riuniranno per un nuovo summit il 20 e 21 marzo, ma nemmeno da lì c’è da aspettarsi una decisione definitiva.

Come al solito, però, il nodo è sui finanziamenti: quante risorse impiegare, e chi le metterà? Teoricamente, il piano prevede la possibilità di contribuire “in natura”, cioè non solo con trasferimenti monetari ma anche tramite l’invio diretto di attrezzatura militare. Parlando di soldi, la bozza del documento fa riferimento ad una forbice compresa tra i 20 e i 40 miliardi di euro, a seconda delle esigenze degli ucraini. Una parte, poco meno di 2 miliardi, dovrebbe arrivare dalla Commissione.
Il resto sarebbe responsabilità degli Stati membri, che dovrebbero contribuire con una quota proporzionale al loro peso economico, calcolato con ogni probabilità in base al reddito nazionale lordo (Gni nell’acronimo inglese). La partecipazione dovrebbe avvenire su base volontaria – un modo per disinnescare potenziali veti, ad esempio da Budapest o Bratislava – e potrebbe essere aperta anche a Paesi terzi extra-Ue.
Le obiezioni di Italia e Francia
A seconda delle stime (e delle dimensioni finali dello strumento) l’Italia potrebbe dover versare una somma intorno ai 4 o 5 miliardi. Motivo per cui a Roma l’iniziativa di Kallas è stata accolta con freddezza. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani prende tempo: “Mi pare che ci siano ancora tanti interrogativi da parte di molti Paesi“, ha dichiarato il vicepremier forzista a margine del Consiglio. “Si tratta di una proposta che deve essere spiegata bene nei dettagli, che vanno analizzati ed approfonditi”, ha aggiunto.
Anche la Francia ha delle riserve sull’iniziativa, ma per motivi diversi. Parigi sta già lavorando intensamente per mettere in piedi (insieme a Londra) una coalizione dei volenterosi, tramite cui monitorare un’eventuale tregua in Ucraina una volta che verrà stipulato un cessate il fuoco. E proprio dall’opposizione dell’Eliseo sarebbe derivato l’annacquamento della proposta originale di Kallas, più ambiziosa, e l’inclusione della possibilità di contribuire tramite invio di armi e altre attrezzature.

Per il capo della Farnesina, l’impegno dell’Italia affianco a Kiev rimane saldo ma “bisogna valutare bene quali saranno i costi, perché dovremo investire molte risorse” anche per raggiungere il target del 2 per cento del Pil in spese per la difesa deciso in sede Nato (un obiettivo che sarà probabilmente rivisto al rialzo nei prossimi mesi) nonché per il piano europeo di riarmo targato Ursula von der Leyen. “Abbiamo già varato 11 pacchetti di aiuti per l’Ucraina e abbiamo già dato tutto quello che potevamo dare“, certifica il leader azzurro: come a dire che le corde della borsa potrebbero presto chiudersi, almeno per quanto riguarda il sostegno alla resistenza di Kiev.
Missioni militari (e unità transatlantica)
Quanto all’invio di truppe sul terreno, Tajani conferma la linea del governo italiano. In occasione di una videoconferenza organizzata dall’omologo britannico Keir Starmer lo scorso sabato (15 marzo), la premier Giorgia Meloni si è sfilata da un’eventuale forza militare in Ucraina. Da Roma non verranno mandati militari: non in ambito Ue, non in ambito Nato, e nemmeno a livello di alcuna coalizione di volenterosi. Semmai, ragiona il titolare degli Esteri, se ne potrà parlare nel quadro di una missione sotto il cappello Onu. Che però andrebbe approvata dal Consiglio di sicurezza, dove Russia e Cina detengono il diritto di veto.
Eventualmente, osserva il vicepremier riprendendo il concetto espresso da Meloni la scorsa settimana, si può pensare ad “una sorta di articolo 5 bis” per Kiev (il riferimento è all’articolo 5 della Carta atlantica, che sancisce il principio della difesa collettiva tra i membri dell’Alleanza) che garantisca “un impegno internazionale per la protezione dell’Ucraina“. Fermo restando che, stante l’opposizione di Washington, è sostanzialmente impossibile che l’ex repubblica sovietica possa aderire alla Nato nel futuro immediato.

Ad ogni modo, sostiene il ministro, è prematuro speculare su forze di peacekeeping mentre stanno ancora cadendo le bombe: “Bisogna prima arrivare alla pace, e prima ancora al cessate il fuoco”, osserva, ricordando che il presidente russo non ha ancora risposto alla proposta di tregua concordata da Ucraina e Stati Uniti a Gedda la scorsa settimana. E dunque “non bisogna prendere decisioni prima che si sappia cosa accadrà” sul campo e intorno ai tavoli negoziali, perché le cose possono cambiare rapidamente. Meglio aspettare di conoscere l’esito della telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin, prevista per domani.
“L’importante”, sottolinea, “è che l’Europa sia unita e che, soprattutto, non si rompa l’unità transatlantica tra Europa e Stati Uniti” poiché questi ultimi “non sono un nemico ma il nostro principale, storico alleato”. “Il nostro obiettivo è sempre quello di tenere unito l’Occidente, perché se l’Occidente si divide, si indebolisce, si rafforzano le autocrazie“, ha concluso.