Ci voleva Donald Trump, insomma, per scuotere dalle fondamenta un intorpidita Unione europea, impegnata tuttalpiù alla conversione a U delle sue troppo ambiziose politiche ambientali e a un giro di vite di quelle migratorie, nel tentativo di andare incontro a due delle preoccupazioni maggiori espresse dall’elettorato col consenso crescente ai partiti e movimenti “sovranisti “ un po’ in tutta Europa alle ultime elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo.
Acquisiti, lodati, ma sostanzialmente ignorati i rapporti Draghi e Letta, al di là del cambio di qualche acronimo e di un imbellettamento di facciata, prima del ciclone Trump ci si è scontrati più sulla nomina a vicepresidenti della Commissione europea rispettivamente di Teresa Ribera e di Raffaele Fitto che sul nostro futuro comune.
Basti pensare al primo documento strategico adottato dalla nuova Commissione dopo l’insediamento e la polmonite che ha colpito a gennaio Ursula von der Leyen, quel Competitiveness Compact di cui probabilmente già nessuno si ricorda più.
Già, perché nel frattempo è cambiato tutto e non nel senso indicato da Tancredi Falconeri nel Gattopardo, ma piuttosto di quello di Alberto Sordi in “Tutti a casa” quando il giovane tenente che interpreta, di fronte ai primi colpi dei tedeschi contro truppe italiane l’8 settembre, chiamando il colonnello afferma “i tedeschi si sono alleati con gli americani”.
Con le sue mosse su più tavoli, con le sue dichiarazioni “imperiali”, con il suo ammiccamento alle ragioni del Cremlino, il nuovo presidente americano sta imprimendo un phasing out degli Stati Uniti senza precedenti dal legame geostrategico, oltre che politico, economico e commerciale con l’Unione europea in primis, ma in genere con l’Europa nel suo complesso.
La sua gestione della crisi ucraina ne è un esempio rivelatore: se si trattava di ceder terre conquistate da uno stato invasore e di neutralizzare l’Ucraina facendone un paese a sovranità limitata in omaggio alla legge del più forte e non ai principi più elementari del diritto internazionale, non ci voleva Trump: bastava abdicare ai valori fondanti delle nostre democrazie, di quelle che si sono riconosciute dapprima nella Carta Atlantica e poi nelle Nazioni Unite, e che sono alla base proprio della costruzione europea, per farcela anche da soli. Ma l’Europa – e gli Stati Uniti – hanno scelto dal marzo del 2022 un altro percorso, perseguendolo con determinazione pur se, nell’immediato, più incerto, complesso e denso di conseguenze economiche e sociali.
Percorso fondamentalmente ribadito ancora nell’ultima risoluzione adottata questa settimana dal Parlamento europeo, pur con crescenti distinguo, segnatamente da parte italiana, sulle prospettive di un coinvolgimento sul terreno di truppe europee di peacekeeping, e al centro di un attivismo diplomatico che, da Macron a Starmer passando per Donald Tusk e il cancelliere in pectore tedesco Friedrich Merz, cerca di opporre una “via europea” a quella che, sopra le nostre teste, si sta sviluppando sull’asse Washington-Mosca con la complicità del principe saudita Mohammed Bin Salman, ben contento della sua promozione a honest broker, e il coinvolgimento suo malgrado di Volodymyr Zelensky, conscio del fatto che senza intelligence e aiuto militare americano la resistenza ucraina poco può fare.
Nella divisione dei compiti fra Europa e Stati Uniti, questo non vuol dire che sinora i Paesi europei siano stati a guardare, come qualcuno ha provato a insinuare: semplicemente la superiorità militare degli Stati Uniti non solo è indiscussa, ma costituiva sin qui anche il presupposto del sostegno alle ragioni della resistenza ucraina, oggi venuto meno.
La volontà di negoziare con la Russia senza partecipazione europea – come ai bei tempi di Yalta, dove però il terzo incomodo fece sentire quanto poté la sua voce – e la minaccia di abbandonare al suo destino l’Alleanza Atlantica sono stati due campanelli d’allarme ricevuti forte e chiaro dai dirigenti europei, britannici compresi, costretti a rimboccarsi le maniche e alle prese con scelte impensabili solo pochi mesi fa.
Da questo punto di vista il Consiglio europeo della settimana prossima rappresenta un passaggio cruciale per mettere nero su bianco i contorni precisi della strategia emersa nelle ultime settimane come risposta europea, su questo fronte, al cambio di passo dell’Amministrazione Trump, partendo dalle proposte che traducono in decisioni operative gli elementi di consenso già emersi.
Una responsabilità, che non per nulla sarà preceduta da dibattiti parlamentari nazionali, che incombe a tutti e ciascuno dei leader europei.