Bruxelles – La Commissione europea spinge ancora un po’ più in là l’asticella di ciò che è legittimo fare per contrastare l’immigrazione irregolare. La nuova ossessione sono i rimpatri: di tutte le persone migranti che ricevono un ordine di lasciare il territorio Ue, solo una su cinque lo fa veramente. In assenza di accordi con i Paesi d’origine, Bruxelles sceglie di percorrere due strade: da un lato uniformare le procedure tra i Paesi membri e indurire le sanzioni per chi non collabora, dall’altro deportare le persone migranti da rimpatriare in centri di detenzione in Paesi terzi, i famosi return hubs.
Sono le linee contenute nella proposta di regolamento svelata oggi (11 marzo) dal commissario Ue per gli Affari interni, Magnus Brunner, e dalla vicepresidente esecutiva della Commissione europea, Henna Virkkunnen, che sostituirebbe la direttiva “non più adatta” in vigore dal 2008. Dal punto di vista interno, l’idea è istituire un ordine di rimpatrio europeo, che promuoverà un maggiore riconoscimento reciproco delle decisioni di rimpatrio tra i Paesi membri. “Quando uno Stato membro ordina a qualcuno di andarsene, deve lasciare l’intera Ue”, ha affermato Brunner dall’emiciclo di Strasburgo. In un primo momento, l’applicazione diretta di una decisione di rimpatrio emessa da un altra capitale Ue, senza dover avviare un nuovo processo, sarà volontaria. Ma il piano della Commissione è rendere il riconoscimento reciproco obbligatorio entro il 2027.
Parallelamente, Bruxelles vuole imporre obblighi più espliciti di cooperazione con le autorità nazionali durante la procedura di rimpatrio, integrati da chiare conseguenze in caso di mancata cooperazione (come la riduzione o il rifiuto delle indennità o il sequestro dei documenti di viaggio). Se non bastassero nuovi incentivi proposti per il rimpatrio volontario, a quel punto la Commissione europea sta pensando di rendere i rimpatri forzati obbligatori nei confronti di chi non collabora, fugge in un altro Stato membro, non lascia l’Ue entro il termine stabilito per la partenza volontaria o rappresenta un rischio per la sicurezza. “Alle persone che rappresentano una minaccia non può essere permesso di rimanere libere per le nostre strade in Europa con il potenziale rischio per gli altri”, ha dichiarato Brunner, elencando una serie di misure “per proteggere dai rischi per la sicurezza, tra cui la detenzione (per un periodo massimo di due anni, ndr), i rimpatri forzati, e anche divieti di ingresso più lunghi”. Per un massimo di dieci anni, con la possibilità di ulteriori proroghe per periodi successi di massimo cinque anni.

Ma in definitiva, ancora una volta, servono accordi di riammissione delle persone migranti con i Paesi d’origine. “Una decisione di rimpatrio non significa nulla se non c’è una riammissione”, ha ammesso Brunner. Di accordi così è difficile farne, per diverse ragioni, questo è il nodo principale. Ecco perché alla fine nella proposta di Brunner i controversi centri per i rimpatri in Paesi terzi ci sono eccome e – a leggerne i dettagli – appaiono fondati i timori, espressi solo un mese fa dall’Agenzia Ue per i diritti fondamentali (Fra), che possano configurarsi come “zone senza diritti”.
In sostanza, tirato per la maglia da quegli Stati membri trainati dai partiti di estrema destra che chiedevano “soluzioni innovative per la gestione della migrazione”, l’esecutivo Ue propone di introdurre la possibilità legale per i governi Ue di stipulare accordi con Paesi terzi per trasferirvi persone che soggiornano irregolarmente sul territorio nazionale e che hanno ricevuto una decisione definitiva di rimpatrio. Accordi che “possono essere conclusi con Paesi che rispettino le norme e i principi internazionali in materia di diritti umani”, viene chiarito nel testo.
Gli hub esterni per i rimpatri “sono completamente diversi” dai modelli – finora fallimentari – sperimentati con il protocollo Italia-Albania o tra Regno Unito e Ruanda. In particolare, il protocollo tra Roma e Tirana “riguarda i richiedenti asilo”, mentre “gli hub di rimpatrio, che renderemo possibili per gli stati membri, riguardano le persone che hanno già un ordine di rimpatrio”, hanno precisato Brunner e Virkkunnen alla stampa. Anche se Brunner ha aggiunto che “siamo mentalmente aperti a tutte le altre soluzioni innovative“. Non proprio una bocciatura al progetto di esternalizzazione delle procedure d’asilo su cui punta Meloni, ma quantomeno un rinvio a ulteriori strette future. O a quanto in là si spingeranno nella pratica gli Stati membri.

Perché per ora, la Commissione europea non fa altro che fissare una base legale su cui i governi Ue potranno costruire i propri accordi con Paesi terzi. “Le specificità sono per i negoziati, il modello di hub di rimpatrio può assumere una forma o un’altra“, conferma un alto funzionario Ue. Le condizioni di soggiorno, la durata massima della detenzione, gli eventuali scenari al termine di quest’ultima, tutti aspetti che “saranno definito negli accordi” tra Paesi membri e Paesi che ospiteranno i centri.
Le uniche salvaguardie indicate nella proposta di Bruxelles sono l’esclusione di famiglie con minori e di minori non accompagnati, e l’obbligatorietà di stabilire un meccanismo di monitoraggio per l’attuazione di tali accordi. Le intese bilaterali sui return hubs saranno visionate dalla Commissione europea, che avrà così “la possibilità di rilevare tempestivamente se ci sono serie preoccupazioni o meno e di identificare le possibili violazioni”, spiega ancora una fonte vicina al dossier. Ma ciò non significa che “sarà l’Ue a gestire” il monitoraggio dei centri. Anche questo dettaglio è per ora lasciato alle intese future.
La stretta sui rimpatri è stata chiesta a gran voce da un ampio spettro di forze politiche, dall’estrema destra fino ad alcune formazioni del campo progressista, sulla scia dei casi di violenze e reati che hanno visto coinvolte persone migranti emarginate, soggette a ordini di rimpatrio e invece ancora residenti sul territorio Ue. Episodi impugnati abilmente da chi predilige la narrativa securitaria ai certo più complessi sforzi per l’accoglienza e l’integrazione. Ma sui centri di detenzione esterni all’Ue, la Commissione europea potrebbe incassare il no di una parte della maggioranza europeista che la sostiene: dai socialdemocratici, ai liberali e ai verdi, i dubbi sono molti. Il rischio è che, nel tentativo di proporre “soluzioni concrete” proprio per zittire la propaganda anti-migranti che si fa spazio in Europa, la destra moderata e cristiana espressione maggiore dell’esecutivo Ue finisca a doversi rivolgere proprio ai partiti di estrema destra per appoggiare il suo piano sui rimpatri.