La difesa è una cosa complessa. Avere le armi conta, ovviamente, ma, come diceva un mio amico poliziotto che guidava come un pilota di formula uno “il mezzo conta, ma conta pure il pilota”. Dove sta andando l’Unione europea? Lasciamo perdere il dibattito, pur sacrosanto, sulla scelta di aumentare le armi o tentare ogni strada di dialogo, non è questa la sede. La domanda che mi pongo qui è: si è deciso di aumentare le capacità militari difensive dell’Europa (non solo dell’Ue), ma a che scopo? La meta non è definita, se non con la “deterrenza” invocata dalla presidente della Commissione europea.
Ragioni diplomatiche e di prudenza impediscono di dire che il nemico eventuale da cui difendersi è la Russia, Ursula von der Leyen non l’ha mai detto, anche se è chiaro a chi pensa. Che poi forse non è solo la Russia il cruccio che dobbiamo avere, bensì dobbiamo considerare anche altre possibili minacce future. Al di là dell’Ucraina, se gli Usa si tirano indietro dal difendere l’Europa, siamo senza deterrenza da qualsiasi minaccia. Che sia essa la Russia, gli stessi Usa, o un esercito “informale” tipo Isis riformato. In effetti in Europa riteniamo di non avere più deterrenza né la difesa territoriale adeguate, cosa abbastanza basiche. In più, quello che abbiamo, dicono gli esperti, non è interoperabile senza la leadership militare statunitense e il quadro Nato.
Si sta decidendo però di aumentare la spesa militare, di aumentare la capacità produttiva europea, “ne abbiamo i mezzi”, ha detto oggi von der Leyen al Parlamento europeo. E va bene, è vero, gli europei hanno una solida base dalla quale partire e finanze che permettono un aumento della spesa. Considerando poi che la crescita economica dell’Unione è scesa vicino allo zero per cento, rilanciare una produzione può essere utile alla ripresa. Fabbricare armi vuol dire fare investimenti in progettazione, produzione e dunque creare posti di lavoro. Alcuni come l’Italia tentano di combinare il via libera sulle spese per la difesa con la creazione di nuova occupazione assumendo nuovi soldati. Insomma, il ritorno economico c’è.
Il problema che vedo però è che aumentare la spesa non serve a migliorare la difesa se non individui il nemico potenziale, e dunque le necessità militari di difesa. Per dire, se il pericolo viene dal mare serviranno più navi, se viene dalla terra più truppe, se il nemico ha una forte aviazione serviranno contraeree, se il confine con la zona rischio è lungo ci vorranno importanti infrastrutture difensive (non certo una nuova linea Maginot!). Insomma, prima va definito il rischio, poi ne va definito il livello, e dunque si dovrà strutturare una difesa adatta a quello. Insomma, nel caso ora più prossimo probabilmente non servono divise in bermuda per il deserto, ma in piumini per il freddo.
Il discorso non è quello che fa l’Italia, secondo il quale, se ho ben capito, ogni Stato dice quanti carri armati necessita e poi si trova la soluzione migliore per produrli a livello europeo. E’ giusto coordinare la produzione, ma così si rafforzerebbero, forse, gli eserciti nazionali, ma non la difesa europea. Ad esempio, con la minaccia russa, dare carri armati al Portogallo, che è a migliaia di chilometri dal confine, probabilmente non serve, anche se i portoghesi magari ne vorrebbero.
Nel quadro di Ramstein, Il Gruppo di contatto per la difesa dell’Ucraina del quale fanno parte 54 Paesi, Kiev volta per volta chiede specifici aiuti per specifici obiettivi militari. Questo deve essere il metodo anche per la nuova difesa Ue: individuare la necessità, definire i mezzi per affrontarla e poi investire di conseguenza. Altrimenti rischiamo di gonfiare i muscoli ma di dare pugni all’aria.