Con l’avvento di Giovani XXIII al soglio pontificio, Giovanni Spadolini titolò un suo celebre editoriale “Il Tevere più largo” a significare il prevedibile cambio di paradigma nel rapporto Stato – Chiesa dopo il lungo regno di Pio XII.
Inconsapevolmente, Trump ha ripreso il concetto a suo conto, dichiarando che poiché “un vasto oceano” separa gli Stati Uniti dall’Europa il conflitto ucraino è di maggior rilevanza per gli europei che per gli americani, in linea con l’atteggiamento ostile che Trump ha mantenuto sin dall’inizio della sua seconda presidenza e in totale contrasto con lo spirito, se non la lettera, dell’Alleanza Atlantica.
Ma tanto è. E così, dopo un’iniziale sbandamento, si stanno moltiplicando in questi giorni le iniziative per far fronte al ciclone Trump, non solo per la sua sostanziale adesione alle tesi russe sull’origine e le responsabilità della guerra in Ucraina e la sua durata, ma anche per il suo obiettivo ultimo, quello di favorire l’emergere di partiti e movimenti “sovranisti” che condividono le parole d’ordine della nuova e impetuosa dirigenza americana e che possano sostituire le attuali “elites” che hanno portato l’Europa alla sua “deriva politica e valoriale”.
Tra i primi a muoversi, e provare almeno a sparigliare senza aspettare oltre, sono stati Macron e il premier britannico Starmer, che hanno messo sul tavolo la prospettiva di garantire l’invio di forze militari di “peacekeeping” a condizione che gli Usa continuino a garantire un backstop e che gli europei siano effettivamente coinvolti nelle trattative per una soluzione al conflitto, nonché Antonio Costa che ha pazientemente tessuto i fili per la convocazione di un Consiglio europeo straordinario giovedì 6 marzo, mentre va dato atto a Ursula von der Leyen di aver preso la buona decisione di sottolineare il sostegno UE all’Ucraina trasferendo nel terzo anniversario dell’invasione russa tutta la Commissione a Kiev per un “mini-vertice” con Zelensky in presenza di Pedro Sanchez e altri leader di paesi europei.
Il tempo stringe: da qui l’idea, impensabile solo pochi mesi fa, di un fondo comune UE-Regno Unito per la spesa legata ad armamenti e sicurezza europea, definito dal ministro delle Finanze polacco Andrzej Domanski una “rearmament bank”, e di cui i paesi interessati dovrebbero discutere a margine della riunione dei ministri delle finanze del G20 questa settimana a Città del Capo, per preparare il terreno all’incontro dei leader europei a Londra in programma domenica 2 marzo.
Al di là delle technicality, il solo fatto che si prenda in esame un simile progetto congiunto la dice lunga sulla volontà di reagire al brusco e repentino incalzare degli eventi. Starmer ha peraltro annunciato l’aumento della spesa militare al 2,5 per cento del PIL entro il 2027, con la possibilità di salire al 3 per cento già nel 2030.
Quanto all’incontro dei leader europei di giovedì 6 marzo a Bruxelles, all’ordine del giorno Costa ha inserito la possibile nomina di un inviato speciale Ue per l’Ucraina, facendo propria la proposta avanzata nel corso della conferenza di Monaco sulla sicurezza dal presidente finlandese Alexandre Stubb e dal premier croato Andrej Plenkovic.
Se, in questa fase così delicata e convulsa, si decidesse di affidare a una personalità – necessariamente di alto livello – il “cellulare” dell’Unione europea e dei suoi stati membri per parlare a una sola voce del futuro dell’Ucraina con le altre parti coinvolte, questo costituirebbe certamente un passaggio fondamentale, mostrando un’unità di intenti sinora piuttosto labile.
Sarà interessante in proposito l’atteggiamento della Germania, nella situazione transeunte in cui si trova, e che naturalmente resta al centro della politica europea.
E sarà interessante capire chi di sufficientemente autorevole potrà rivestire un tal ruolo, per le numerose implicazioni economico-finanziarie, oltre che militari e geo-politiche, che il dossier Ucraina comporta.