Bruxelles – Donald Trump è in carica da appena un mese e ha già sconvolto la politica internazionale. Soprattutto sul dossier della guerra in Ucraina, ha colto alla sprovvista gli alleati europei, escludendoli di fatto dalle trattative per la fine delle ostilità (ma scaricando su di loro la responsabilità del mantenimento della pace). Nel Vecchio continente lo smarrimento è totale.
Con timidezza, alcune voci iniziano a levarsi in modo disordinato. Tuttavia non c’è ancora una vera strategia per reagire alle picconate che il presidente statunitense sta sferrando all’impazzata: non solo agli ultimi tre anni di politica estera a stelle e strisce, ma allo stesso ordine internazionale che Washington aveva costruito dopo la Seconda guerra mondiale.
Scontro frontale Trump-Zelensky
In effetti, la gran parte del lavoro Trump l’ha fatta nel giro di una sola settimana. Cioè da quando ha chiamato al telefono l’omologo russo Vladimir Putin senza coordinarsi né col leader ucraino Volodymyr Zelensky né con gli alleati europei (o presunti tali). Sconfessione su tutta la linea dell’approccio del suo predecessore Joe Biden: riabilitazione della Russia dopo tre anni di isolamento diplomatico e porta in faccia all’adesione di Kiev alla Nato, con annessa minaccia di chiudere i rubinetti degli aiuti militari al Paese invaso.
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Negli ultimi giorni, le relazioni tra la Casa Bianca e la leadership ucraina sono precipitate. Un’escalation verbale che è culminata con l’uomo più potente del mondo (libero e non) che dà del “dittatore” al presidente ucraino, mettendone in dubbio la legittimità democratica. Quest’ultimo, eletto prima della guerra, non è sostituibile fintanto che vige la legge marziale (come detta la Costituzione ucraina). A dargli lezioni di democrazia, l’istigatore dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, scaturito proprio dall’incapacità di accettare l’esito di un’elezione assolutamente democratica e legittima. Del resto, c’è chi sostiene che la ruggine tra i due viene da lontano, dai tempi in cui Trump finì sotto impeachment alla Camera dei deputati.
Ma il presidente statunitense non è certo l’unico a trattare in maniera disinvolta quello che dovrebbe essere un alleato. Dopo che Zelensky si è permesso di controbattere alle sparate dei giorni scorsi, il consigliere per la Sicurezza nazionale di Washington Michael Waltz ha suggerito agli ucraini di “abbassare i toni e firmare l’accordo” sulle terre rare proposto dal suo capo (il quale ha preteso i diritti di sfruttamento sul 50 per cento delle risorse minerarie dell’ex repubblica sovietica), definendolo “la migliore” garanzia di sicurezza per Kiev. Il leader ucraino aveva già declinato l’offerta sostenendo che non può “vendere” il proprio Paese.
Una nuova Jalta?
Presa in mezzo al fuoco amico è rimasta anche l’Europa. Le prove tecniche di disgelo tra Washington e Mosca andate in scena a Riad hanno gelato, invece, le cancellerie del Vecchio continente. Non solo perché, dopo tre anni in cui hanno ripetuto che non si decide nulla sull’Ucraina senza di loro – e senza Kiev – sono effettivamente state messe all’angolo da Trump, che considera Putin il suo unico interlocutore.
Ma anche perché, rendendo esplicito il disimpegno degli Stati Uniti dall’Europa, il tycoon ha sostanzialmente privato l’intero continente del principale garante della sua sicurezza. La cui architettura andrà ora ridisegnata da capo, per la prima volta dal 1945. Una nuova Jalta, 80 anni dopo l’originale. Con la differenza che, stavolta, l’Europa non ha nessun Winston Churchill da mandare al tavolo.
La debole risposta europea
E proprio l’iconico leader britannico è stato tirato in ballo da uno dei pochi che, seppur con toni cauti e circostanziati, hanno avuto il coraggio di solidarizzare con Zelensky. “Un leader democraticamente eletto“, lo ha descritto Keir Starmer, l’attuale inquilino di Downing Street, secondo cui è “perfettamente ragionevole” sospendere le elezioni in tempo di guerra, come fatto appunto da Churchill.
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Il primo ministro volerà verso la capitale Usa “la prossima settimana”, per cercare di riaprire un canale di dialogo con la Casa Bianca. E per mettere sul tavolo l’ipotesi di una forza d’interposizione anglo-francese in Ucraina per monitorare la linea di un eventuale cessate il fuoco a condizione che venga fornita una “copertura americana”. A Washington dovrebbe recarsi anche Emmanuel Macron, che negli scorsi giorni ha organizzato in fretta e furia nella capitale transalpina due vertici non ufficiali tra leader europei (uno lunedì e uno ieri) per coordinare una reazione al terremoto Trump. Obiettivo mancato.
Ieri sera, era stato il cancelliere tedesco uscente Olaf Scholz a bollare come “sbagliate e pericolose” le insinuazioni del presidente Usa, mentre anche altri leader scandinavi hanno preso le difese di Zelensky (la premier danese Mette Frederiksen, quello svedese Ulf Kristersson e quello norvegese Jonas Gahr Støre). Assordante, invece, il silenzio di Giorgia Meloni, costretta ad una difficile opera di equilibrismo tra il convinto sostegno all’Ucraina (che le ha permesso di rendersi presentabile in Europa negli ultimi anni) e il ruolo di “ponte e pontiera” tra le due sponde dell’Atlantico, reclamato per sé dalla premier in virtù della vicinanza politica con Trump.
Territorio inesplorato
Per il momento, il Segretario generale della Nato Mark Rutte getta acqua sul fuoco. L’ex premier olandese si è detto “un po’ irritato” dell’atteggiamento dei leader europei che si sono lamentati per non essere stati coinvolti nei negoziati. Il suo suggerimento: “Organizzatevi, trovatevi a un tavolo, qualunque cosa questo tavolo comporti esattamente”. Il plauso è per l’iniziativa dell’Eliseo. “L’importante”, dice, “è che in qualche modo in Europa si discuta di come organizzare le garanzie di sicurezza in Ucraina”. Rutte ammette che i tempi non saranno brevi, ma è “felice che almeno si sia smesso di piagnucolare e si sia iniziato ad agire, a mettersi d’accordo“. Un inizio poco promettente, ben distante dal genere di “elettroshock” auspicato dal presidente francese solo pochi giorni fa.
Stiamo entrando in un territorio inesplorato. E nessuno sa come muoversi. Manca a Bruxelles una figura dalla statura politica sufficientemente alta per confrontarsi con Trump. L’Alta rappresentante Kaja Kallas, cui pure i Trattati sembrerebbero affidare un ruolo del genere, è ammutolita da giorni sulla questione. Ancora più scandaloso se si considera che era stata nominata in quanto “falco” sull’Ucraina.
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Il presidente del Consiglio europeo António Costa sarebbe in contatto costante con i capi di Stato e di governo dei Ventisette per organizzare un summit d’emergenza (il prossimo sarebbe in calendario per il 20 marzo). Stando a quanto riportato da funzionari comunitari, ne verrà convocato uno solo quando ci sarà una ragionevole sicurezza di ottenere dei risultati (e tanti auguri a mettere d’accordo anche Ungheria e Slovacchia, che hanno peraltro lamentato l’esclusone dai vertici di Parigi).
A livello Ue, sta venendo messo a punto il 16esimo pacchetto di sanzioni contro il Cremlino, mentre la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock ha annunciato un piano monstre di aiuti militari per l’Ucraina che varrebbe addirittura 700 miliardi di euro, una cifra mai sborsata prima d’ora né da Washington né da Bruxelles (né dalle due insieme).
Kiev al centro dell’azione
Ma per il momento è un liberi tutti. Oltre alle visite di Starmer e Macron negli Stati Uniti, ci sarà quella di Costa e del capo dell’esecutivo comunitario Ursula von der Leyen a Kiev il prossimo 24 febbraio, per celebrare il terzo anniversario dell’invasione russa su larga scala. Dalla Commissione ci si limita a osservare che “Zelensky è stato legittimamente eletto in elezioni libere, corrette e democratiche” e che “l’Ucraina è una democrazia, la Russia di Putin no“. Ovvietà, si direbbe, ma di questi tempi meglio essere sicuri.
Nella capitale ucraina, intanto, è atterrato ieri Keith Kellogg. Sulla carta, è l’inviato speciale della Casa Bianca per la crisi russo-ucraina, ma sembra che Trump lo stia mettendo in secondo piano rispetto ad un altro inviato speciale (nonché suo compagno di golf), Steve Witkoff, che però si dovrebbe occupare di Medio Oriente. I maligni dicono che Kellogg sarebbe stato tenuto alla larga in quanto inviso ai russi. Witkoff è l’artefice dello storico accordo tra Israele e Hamas di metà gennaio, e pare avrà un ruolo cruciale anche nei negoziati col Cremlino, che non a caso sono iniziati proprio in Arabia Saudita.
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“Ho affermato la volontà dell’Ucraina di raggiungere la pace attraverso la forza e la nostra visione per i passi necessari”, ha commentato il ministro degli Esteri di Kiev Andrii Sybiha dopo aver incontrato Kellogg. Che in questo momento sta ancora parlando con Zelensky, mentre è stata annullata la conferenza stampa congiunta inizialmente prevista al termine del bilaterale. A inizio settimana, il presidente ucraino aveva incontrato ad Ankara il suo omologo turco Recep Tayyip Erdoğan, che vorrebbe proporsi come mediatore al posto dei sauditi.