Bruxelles – D’un tratto, la fine della guerra in Ucraina sembra più vicina. È l’effetto del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Cogliendo gli alleati di sorpresa, il presidente statunitense ha sentito i suoi omologhi Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky, che sarebbero entrambi disposti ad avviare i negoziati di pace al più presto. Prendendo direttamente in mano le sorti della guerra, che dura ormai da tre anni, Washington sta facendo capire agli europei che d’ora in poi dovranno assumersi maggiori responsabilità per la sicurezza del Vecchio continente. E che non potranno più dare per scontato l’aiuto degli Usa.
Il colloquio con Putin
La notizia è deflagrata ieri sera (12 febbraio) come una bomba ad orologeria. Prendendo mezzo mondo in contropiede, il presidente statunitense Donald Trump ha annunciato di aver avuto un colloquio telefonico col suo omologo russo Vladimir Putin, il primo pubblicamente confermato tra i due dal re-insediamento del tycoon. Nei circa 90 minuti di telefonata, i leader hanno parlato di come mettere fine alla guerra che infuria ormai da quasi tre anni in Ucraina, avviata il 24 febbraio 2022 dal Cremlino.
“Penso che siamo sulla strada della pace“, ha dichiarato Trump. “Abbiamo concordato di lavorare insieme, molto da vicino, anche visitando le rispettive nazioni”, ha scritto l’inquilino della Casa Bianca sul suo social Truth, aggiungendo di aver trovato la sponda del capo del Cremlino per “far iniziare immediatamente i negoziati ai nostri rispettivi team”.

“La gente non sapeva davvero quali fossero i pensieri del presidente Putin”, ha aggiunto, “ma credo di poter dire con grande sicurezza che anche lui vuole vedere la fine di questa guerra“, definita “ridicola” in un altro passaggio. “Lavoreremo per farla finire, e il più velocemente possibile” ha garantito, suggerendo che un primo incontro di alto livello potrebbe avvenire a breve in Arabia Saudita. Lo stesso Putin ha invitato il suo omologo statunitense a recarsi a Mosca per negoziare.
La chiamata con Zelensky
Subito dopo, Trump ha chiamato anche il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, per informarlo dell’avvenuta conversazione con l’autoritario leader del Paese che sta aggredendo Kiev. “Penso che il presidente Putin voglia la pace, il presidente Zelensky vuole la pace e io voglio la pace”, ha detto ai giornalisti nello studio ovale.
Il leader dell’ex repubblica sovietica ha dichiarato che “nessuno vuole la pace più dell’Ucraina“, aggiungendo che “insieme agli Stati Uniti, definiremo i prossimi passi da compiere per porre fine all’aggressione russa e garantire una pace duratura e affidabile“. Cercando di fare buon viso a cattivo gioco, Zelensky ha espresso fiducia nel fatto che “la forza dell’America sia sufficiente per fare pressione sulla Russia e su Putin per ottenere la pace”. Del resto, lui stesso aveva pubblicamente ammesso lo scorso dicembre che, se Washington si sfila, l’Europa da sola non sarà in grado di garantire la sicurezza dell’Ucraina.
Per Kiev, il cambio di amministrazione a Washington è stato impattante. Gli ucraini non sarebbero stati consultati dal team di Trump prima della chiamata a Putin. Uno stacco netto rispetto al mantra, ripetuto instancabilmente dall’entourage del precedente presidente Joe Biden, di non discutere “nulla sull’Ucraina senza l’Ucraina”.

Negoziati imminenti?
Trump ha anche annunciato che il suo vicepresidente James David Vance e il suo segretario di Stato Marco Rubio terranno dei colloqui sul cessate il fuoco durante la Conferenza sulla sicurezza di Monaco, in calendario dal 14 al 16 febbraio. Il team negoziale di Washington comprenderà anche il direttore della Cia John Ratcliffe, il consigliere per la Sicurezza nazionale Michael Waltz e l’inviato speciale per il Medio Oriente Steve Witkoff (mentre è rimasto escluso Keith Kellogg, che pure è l’inviato speciale per l’Ucraina e la Russia).
Questo nuovo corso della diplomazia a stelle e strisce fa seguito ad uno scambio di prigionieri tra Mosca e Washington, avvenuto il giorno precedente, visto dal Cremlino come una dimostrazione di buona fede tra i due Paesi. La liberazione dell’insegnante statunitense Marc Fogel è stata compensata da quella di Alexander Vinnik, un riciclatore russo di denaro sporco che si trovava in carcere con l’accusa di crimini informatici.
Quale pace per Kiev?
In realtà, la guerra nell’ex repubblica sovietica è cominciata 15 anni fa. Dopo i fatti dell’Euromaidan (che gli ucraini chiamano la “rivoluzione della dignità”), a inizio 2014 la Russia ha preso il controllo della penisola di Crimea e sostenuto le milizie separatiste del Donbass, integrate poi nell’esercito regolare a settembre 2022 quando, con un referendum mai riconosciuto dall’Occidente, Mosca ha annesso le province ucraine parzialmente occupate (Luhansk, Doneck, Zaporizhzhia, Cherson e appunto la Crimea).
Kiev, che da tempo non riesce a ottenere successi significativi sul campo entro i propri confini, lo scorso agosto ha conquistato una piccola porzione di territorio nell’oblast’ russa di Kursk. Che ora vorrebbe scambiare col Cremlino per riavere indietro almeno una parte delle regioni occupate, cioè circa un quinto del territorio ucraino.

Questa, in estrema sintesi, è la situazione da cui dovranno partire i negoziati per il cessate il fuoco, che nelle speranze di Trump dovrebbero condurre rapidamente ad una tregua duratura e ad un successivo trattato di pace. A tal proposito, il segretario alla Difesa statunitense Pete Hegseth – in visita al quartier generale della Nato a Bruxelles per una due giorni tra ieri e oggi del Gruppo di contatto per l’Ucraina (la cui guida è appena passata da Washington a Londra) – è stato particolarmente chiaro su almeno tre aspetti.
Primo, l’Ucraina deve rinunciare a recuperare tutte le terre cadute nelle mani di Mosca, così come deve abbandonare la speranza di tornare ai confini pre-2014, poiché si tratterebbe di un “obiettivo irrealistico“. “Inseguire questo obiettivo illusorio non farà altro che prolungare la guerra e causare ulteriori sofferenze”, ha detto chiaro e tondo Hegseth.
Secondo, “gli Stati Uniti non sosterranno l’adesione” di Kiev all’Alleanza atlantica “come parte di un negoziato di pace”. Terzo, qualunque forma assumeranno, le famigerate garanzie di sicurezza da tempo richieste da Zelensky non vedranno la partecipazione dei militari statunitensi, e un’eventuale missione di peacekeeping dovrà avvenire al di fuori dell’ombrello Nato.
Dal canto suo, il presidente ucraino sta cercando di assicurarsi il coinvolgimento continuato di Trump offrendogli una sorta di prelazione per quanto riguarda l’accesso alle generose risorse minerarie dell’Ucraina. Non a caso, nelle ore in cui Hegseth a Bruxelles rovesciava l’approccio seguito dalla Casa Bianca negli ultimi tre anni, il suo collega responsabile del Tesoro Scott Bessent si trovava a Kiev e ha sottolineato che un simile accordo (dal valore stimato di 500 miliardi di dollari) potrebbe rivelarsi uno “scudo di sicurezza” per l’ex repubblica sovietica una volta finita la guerra.

Ma lo storico delle relazioni tra Russia e Ucraina non è incoraggiante. Nel 1994, il memorandum di Budapest aveva sancito l’impegno di Mosca a rispettare la sovranità e l’integrità territoriale di Kiev, in cambio della cessione delle testate nucleari sovietiche presenti nello Stato che aveva da poco guadagnato l’indipendenza. Dopo l’inizio della guerra nel Donbass, gli accordi di Minsk (due distinti protocolli siglati tra il 2014 e il 2015) dovevano portare ad una ricomposizione della crisi, ma sono rimasti inapplicati e non sono serviti a impedire l’invasione su larga scala del 2022.
E l’Europa?
In tutto questo, il grande assente è proprio l’Ue. La stabilità di qualunque soluzione diplomatica è quello che sembra interessare principalmente gli alleati europei di Kiev, come sottolineato dal Segretario generale della Nato Mark Rutte, che ha preso come esempio di una pace non duratura proprio i protocolli di Minsk.
Gli eventi delle ultime ore hanno fatto realizzare ai Ventisette che la musica a Washington è irrimediabilmente cambiata. Basta consultazioni preventive tra le due sponde dell’Atlantico, ma piuttosto un approccio del fait accompli e una postura muscolare, transazionale alle relazioni internazionali. Niente di nuovo, a ben vedere, ma a preoccupare le cancellerie europee è la rapidità con cui la situazione è “precipitata”.

I leader del Vecchio continente si sentono messi in disparte dal loro potente alleato, il cui sostegno si sta dimostrando meno scontato del previsto. E provano a fare la voce grossa. Ma è una voce quasi afona. I ministri degli Esteri di Francia, Germania, Italia, Polonia, Regno Unito e Spagna (riuniti ieri a Parigi nel formato Weimar+) hanno ribadito come un disco rotto che l’Europa deve continuare a essere coinvolta nel processo di pace in Ucraina e che è fondamentale aumentare il sostegno a Kiev per metterla in una posizione di forza.
La presidente della Commissione Ursula von der Leyen non ha ancora commentato la telefonata tra Trump e Putin, mentre Anitta Hipper, portavoce dell’esecutivo comunitario per gli Affari esteri, ha sottolineato che “la Russia non può essere ricompensata per la sua aggressione“. Per la capo-portavoce Paula Pinho la chiamata tra i leader statunitense e russo segna “l’inizio di un processo” che dovrà essere seguito con attenzione ma il cui esito non è predeterminato, per quanto sia chiaro che “la sicurezza dell’Ucraina è la sicurezza dell’Ue“.
“La pace può essere raggiunta solo insieme: con gli ucraini e con gli europei”, ha rimarcato dalla capitale transalpina la tedesca Annalena Baerbock. “Se c’è una pace, abbiamo bisogno di garanzie di sicurezza affinché sia equa e duratura”, ha ribadito il padrone di casa Jean-Noël Barrot, per il quale “siamo molto legati ad un percorso dell’Ucraina verso la Nato” (anche se il riferimento a questo punto, presente nella dichiarazione di dicembre del formato Weimar+, è sparito in quella di ieri).
Il n’y aura pas de paix juste et durable en Ukraine sans les Européens.
À Paris, je réunis ce soir @kajakallas, @jmalbares, @sikorskiradek, @ABaerbock, @DavidLammy, @KubiliusA, @tripodimaria et @andrii_sybiha pour parler de sécurité européenne et de notre soutien à l’Ukraine. pic.twitter.com/SSMlPsBicv
— Jean-Noël Barrot (@jnbarrot) February 12, 2025
Più conciliante l’italiano Antonio Tajani, che (assente all’incontro parigino) ha tenuto a sottolineare l’importanza del fatto che “Stati Uniti e Russia tornino a parlarsi al massimo livello” nonché la necessità di “lavorare insieme e uniti tutti noi europei, con gli Usa, per riportare la pace nel nostro continente”.
Il problema sta proprio qui. Washington non sembra intenzionata ad allargare a Bruxelles (o a Londra, che è pure stata tra i più strenui sostenitori dell’Ucraina) le sue trattative con Mosca, e non è chiaro nemmeno quale sarà il livello di coinvolgimento di Kiev. Quello che invece la Casa Bianca si aspetta è che gli europei forniscano “la maggior parte dell’assistenza futura all’Ucraina“, come evidenziato da Hegseth. Inclusi i soldati da inviare sulla linea del cessate il fuoco per mantenere in piedi la tregua. Un’impresa che Francia e Polonia hanno di recente cominciato a discutere, ma che non sta riscuotendo un grande successo tra i Ventisette.
A dirla tutta, in realtà Trump vuole ridimensionare l’impegno degli Usa nell’intero quadrante eurasiatico per rifocalizzare l’attenzione verso la Cina e il settore del Pacifico. Così, è toccato ancora a Hegseth ripetere per l’ennesima volta che è giunto il momento per gli europei di “scendere in campo e assumersi la responsabilità della sicurezza convenzionale nel continente“.