Bruxelles – Per quanto il discorso fiume del nuovo (rientrante) presidente degli Stati Uniti Donald Trump sia deflagrato ieri (23 gennaio) come una bomba a mano sulla platea del World economic forum (Wef) in corso a Davos, sembra per il momento che nessuno tra i piani alti dell’Unione europea voglia prendersi la briga di commentarlo.
Collegandosi virtualmente al meeting che nella cornice delle Alpi svizzere riunisce annualmente i pezzi grossi dell’imprenditoria e della finanza mondiale, il tycoon newyorkese ha lanciato i suoi strali contro quelli che considera i principali mali dell’Europa: le follie del “ridicolo” Green deal, la scommessa sulle rinnovabili, la burocrazia ipertrofica, le tasse troppo alte e i presunti scompensi commerciali con l’economia a stelle e strisce.
Eppure, a Bruxelles nessuno sembra interessato a rispondere alle invettive dell’uomo più potente della Terra mentre prende letteralmente a picconate l’elemento di base su cui si fondano (o dovrebbero fondarsi) relazioni transatlantiche: la fiducia reciproca. Assordante soprattutto il silenzio della presidente della Commissione Ursula von der Leyen, che pure al Wef ha parlato rivendicando le politiche green introdotte nel suo primo mandato – politiche che, tuttavia, è ora silenziosamente indaffarata a ridimensionare, come una moderna Penelope che di giorno tesse e di notte disfa il suo ordito – e ha lanciato il Forum globale sulla transizione energetica.
Tra le poche voci che si sono sentite c’è quella della direttrice della Banca centrale europea Christine Lagarde, anche lei a Davos, per la quale la rielezione di Trump e il suo discorso di ieri sono “un campanello d’allarme” per Bruxelles e le cancellerie europee, cui spetta ora il compito di “agire insieme e rispondere“. Il capo della Bce ritiene che “serve una grande sveglia” agli europei: nella sua lettura, i leader dei Ventisette devono collaborare e rispondere “alle minacce esterne”, inclusi gli spauracchi agitati dal presidente Usa come la reintroduzione di pesanti dazi doganali e il dumping fiscale promesso dalla Casa Bianca per incentivare le aziende di tutto il mondo a investire negli Stati Uniti.
In questa fase storica, uno dei temi più scottanti nei rapporti tra Bruxelles e Washington è il rispetto delle regole che l’Ue si è data per tenere sotto controllo le piattaforme digitali e in generale qualunque azienda che operi online vendendo beni e servizi.
Il nodo del contendere, in questo caso, è quello che Trump ha ripetutamente lamentato come un “trattamento ingiusto” da parte dei Ventisette nei confronti delle principali compagnie tech statunitensi, su tutte X ed Apple, colpite dall’antitrust a dodici stelle con multe salate negli scorsi mesi e anni per accertate violazioni delle norme comunitarie sulla concorrenza e il digitale (queste ultime contenute in due provvedimenti legislativi “gemelli” conosciuti come Dsa e Dma, acronimi rispettivamente di Digital services act e Digital markets act).
Come sottolineato stamattina dal vicecapo dei portavoce della Commissione europea Stefan de Keersmaecker si tratta di “regole molto forti” pensate allo scopo di “proteggere i nostri cittadini e le nostre aziende, nonché il modo in cui si fanno affari all’interno dell’Ue“. Il suo collega Thomas Regnier ha confermato che “l’indagine contro X ai sensi del Dsa è tutt’ora in corso” ma che non è ancora stata presa alcuna decisione definitiva dall’esecutivo comunitario. La portavoce responsabile per la concorrenza e il mercato interno Lea Zuber ha rimarcato, ad ogni buon conto, che “abbiamo sanzioni nei nostri sistemi antitrust che comminiamo a tutte le aziende in caso violino le norme europee, da ovunque esse vengano“.
D’altro canto, c’è chi cerca di gettare acqua sul fuoco, come la presidente dell’Eurocamera Roberta Metsola. “Non dobbiamo avere paura di Trump“, ha dichiarato alla Stampa, aggiungendo che secondo lei gli europei hanno “perso un po’ di fiducia” nelle proprie capacità. E ribadendo il ritornello trito e ritrito per cui “noi e gli Stati Uniti siamo alleati storici“.
C’è infine chi salta compiaciuto sul carro del neo-rieletto presidente: “Sul Green deal l’Unione europea ha sbagliato” è il commento del vicepremier italiano Antonio Tajani, che sarà a Bruxelles lunedì prossimo per il Consiglio Affari esteri. Secondo il leader forzista, “va rivista la politica ambientale fondamentalista e ideologica che c’è stata negli anni passati”, sostituendola con “una linea politica pragmatica“.
Che è poi quanto chiede (o meglio esige) lo stesso Trump, secondo il quale il Green deal made in Europe è “un imbroglio”. Il tycoon ha del resto promesso di riaprire le centrali a carbone e di tornare a trivellare il sottosuolo, dopo aver ritirato Washington dagli accordi di Parigi sul clima per la seconda volta, un gesto già compiuto durante il suo primo mandato.