Bruxelles – Per la seconda volta in meno di tre mesi, la Francia è di nuovo senza un governo. Nella serata di oggi (4 dicembre), i deputati delle opposizioni dell’estrema destra e del centro-sinistra hanno votato la sfiducia nei confronti di Michel Barnier, diventato così il primo ministro con la carriera più breve della Quinta Repubblica.
L’ex negoziatore Ue per la Brexit è caduto sulla proposta di bilancio per il 2025, che l’Aula ha giudicato troppo austera nonostante le concessioni dell’ultimo minuto del premier. Il presidente Emmanuel Macron dovrà ora far uscire il Paese da questa inedita impasse politica, ricomponendo la grave crisi politico-istituzionale che lui stesso ha contribuito a far deflagrare e, soprattutto, evitando che Parigi – i cui conti pubblici sono già sotto stretta osservazione a Bruxelles – entri in esercizio provvisorio il mese prossimo.
L’Aula vota la sfiducia
Alla fine sono stati 331 i voti espressi a favore della mozione di censura per il governo di Michel Barnier avanzata dal Nouveau front populaire (Nfp), il fronte unitario delle sinistre che, pur a fatica, tiene insieme le diverse anime del progressismo d’Oltralpe dai Socialistes di Raphaël Glucksmann alla sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon, leader de La France insoumise (Lfi), passando per ecologisti e comunisti. Il risultato era ampiamente atteso ed era apparso inevitabile dopo l’attivazione, ieri, dell’articolo 49.3 della Costituzione da parte di Barnier per approvare il bilancio per il 2025 aggirando il voto dell’Aula.
La sfiducia ha ricevuto il supporto cruciale del Rassemblement national (Rn) di Marine Le Pen, che coi suoi 124 eletti all’Assemblée nationale ha consentito alla mozione depositata ieri dal gruppo parlamentare dell’Nfp di superare la soglia fatidica dei 288 “sì”, cioè la metà assoluta dei 575 membri dell’emiciclo (sarebbero 577 ma due seggi sono vacanti). Non è stato pertanto necessario procedere al voto sulla mozione parallela presentata dal Rn, che peraltro l’Nfp non avrebbe sostenuto.
Tutti contro Macron
Sotto il cielo di Parigi, come prevedibile, la politica è in subbuglio. La destituzione di Barnier è soprattutto un segnale, forte e chiaro, al capo dello Stato: alle sue politiche, sempre più contestate sia dai partiti che dall’elettorato (a partire dall’odiatissima riforma delle pensioni), e alla sua gestione verticistica e quasi personalistica del potere.
“Macron se ne deve andare” è la linea della sinistra radicale, come dichiarato a caldo dalla capogruppo Lfi in Aula Mathilde Panot. Per il leader insoumis Mélenchon, la censura del premier era “ineluttabile” e “nemmeno con un Barnier ogni tre mesi Macron durerà tre anni”. Il riferimento è alla data delle prossime presidenziali, in calendario per la primavera 2027: un appuntamento che la prima forza dell’Nfp (71 eletti) vuole ora anticipare, chiedendo a gran voce le dimissioni di monsieur le Président.
La censure inéluctable a eu lieu. Même avec un Barnier tous les trois mois, Macron ne tiendra pas trois ans.
— Jean-Luc Mélenchon (@JLMelenchon) December 4, 2024
Dello stesso avviso anche Le Pen, capogruppo Rn all’Assemblea, che seppur con toni più diplomatici invita il presidente della Repubblica a farsi da parte: “Spetta a Emmanuel Macron stesso concludere se è in grado di rimanere presidente della Repubblica o meno”, ha dichiarato prima che si aprisse lo scrutinio. “Sta alla sua ragione stabilire se può ignorare l’evidenza di una massiccia sfida popolare che, nel suo caso, credo sia definitiva”, ha aggiunto.
A conferma delle sue parole, e della profonda polarizzazione della società francese, un recente sondaggio ha rilevato che il 62 per cento dei cittadini vorrebbe vedere l’attuale presidente compiere un passo di lato: percentuale che sale fino all’87 per gli elettori del Rassemblement e addirittura al 91 per gli insoumis.
Il fallimento della strategia macronista
L’esito del voto odierno consegna alla storia della Cinquième République il suo premier meno longevo: quasi tre mesi dalla nomina, lo scorso 5 settembre, alla sfiducia parlamentare (per ironia della sorte, questo primato spetta all’uomo più anziano ad aver mai ricoperto questa carica, a 73 anni). Prima di lui, il record negativo era detenuto dal socialista Bernard Cazeneuve, capo dell’esecutivo transalpino per poco più di cinque mesi a cavallo tra il 2016 e il 2017.
All’ex commissario europeo e negoziatore Ue per la Brexit, l’inquilino dell’Eliseo aveva affidato il difficile compito di ricucire gli strappi profondi apertisi negli ultimi mesi nel tessuto politico francese. Strappi che lo stesso Macron aveva contribuito a creare in prima persona, convocando a sorpresa le elezioni anticipate dopo la débâcle subita alle europee di giugno per poi (dicono i critici) ignorarne i risultati, scartando la candidata premier dell’Nfp e paracadutando Barnier alla guida di un esecutivo di minoranza raffazzonato mettendo insieme i propri centristi, arrivati secondi alle urne, con i conservatori neogollisti non esplicitamente compromessi con l’estrema destra lepenista – cioè quello che rimaneva dei Républicains dopo la fuga in avanti dell’ex leader Éric Ciotti (alleatosi col Rn e per questo defenestrato dai suoi vecchi compagni di partito).
Conti in rosso
Ma l’incarico principale di Barnier era quello di far approvare ad un’Assemblée mai così frammentata e litigiosa il progetto di bilancio per il 2025, pena l’esercizio provvisorio a gennaio. Ed è precisamente su questo che si è avvitata la crisi, poiché il budget proposto dal governo – 60 miliardi di euro tra tagli alla spesa pubblica (40 miliardi) e aumenti delle tasse (20 miliardi) – è stato giudicato eccessivamente austero dall’emiciclo.
Tutto questo mentre Bruxelles ha avviato la scorsa estate una procedura d’infrazione per disavanzo eccessivo contro Parigi, i cui conti pubblici rischiano di sforare il 6 per cento di rapporto deficit/Pil mentre i vincoli di spesa europei fissano la soglia “accettabile” di deficit al 3 per cento del prodotto interno lordo.
Ora, la Francia dovrà convincere sia i partner europei sia gli investitori internazionali che è ancora in grado di ripagare il suo debito, che a causa degli investimenti per la ripresa post-pandemica è cresciuto fino a sfondare la soglia del 110 per cento del Pil: attualmente si attesta oltre il 112 per cento, stando alle stime del governo, contro un “tetto” che l’Ue fissa al 60 per cento del Pil. Già nelle scorse ore, i titoli del debito pubblico greco erano stati giudicati più attraenti dai mercati finanziari rispetto a quelli d’Oltralpe, mentre lo spread coi Bund tedeschi ha raggiunto il massimo storico dai tempi della crisi dell’euro nel lontano 2012.
Il futuro incerto
Dall’Eliseo fanno sapere che Macron (rientrato in fretta e furia dall’Arabia Saudita, dove si trovava per rinsaldare i rapporti commerciali con Riad) parlerà alla nazione domani sera, mentre in queste ore il premier dimissionario si sta recando alla residenza presidenziale per rassegnare le dimissioni nelle mani del capo dello Stato. Secondo indiscrezioni giornalistiche, il presidente avrebbe già avviato delle consultazioni lampo per nominare il successore di Barnier entro il weekend, per non offrire un’immagine debole della Francia al presidente-eletto statunitense Donald Trump che sabato parteciperà alla riapertura della cattedrale di Notre Dame dopo l’incendio del 2019.
Ma è poco chiaro quale profilo potrà trovare il sostegno di una maggioranza nell’emiciclo, dove i tre blocchi politici principali – Nfp, Rn e centro liberal-macronista – sono su posizioni virtualmente inconciliabili, e nessuno di loro ha i numeri per governare da solo. Un’opzione potrebbe essere quella di un governo tecnico: sarebbe un inedito per la Francia e la sua fattibilità concreta è tutta da verificare, visti i numeri all’Assemblea.
Eppure, anche le dimissioni di Macron e la convocazione di presidenziali anticipate rischierebbe di non risolvere i problemi. Politicamente, un esito del genere permetterebbe al nuovo capo dello Stato di cercare un nuovo inizio dopo la fine del macronismo, ma non potendo sciogliere il Parlamento (si può fare solo una volta ogni 12 mesi, dunque non se ne parla fino almeno a giugno 2025) chiunque si installi all’Eliseo dovrà fare i conti con la balcanizzazione selvaggia dell’Aula.