Bruxelles – Come già accaduto in passato, anche la 29esima edizione della Conferenza delle Nazioni unite sul clima (Cop29) che si è tenuta nella capitale dell’Azerbaigian si è conclusa con un accordo raggiunto alla venticinquessima ora. Che salomonicamente scontenta (quasi) tutti, e sul quale ci sono state feroci recriminazioni tra i delegati delle varie nazioni. Il fondo per la compensazione e per la transizione energetica nei Paesi in via di sviluppo, che costituisce il principale risultato della kermesse targata Onu, è un risultato che secondo molti osservatori appare insufficiente già sulla carta. E bisogna vedere quanti, di quei soldi, verranno realmente stanziati.
Il fondo per la compensazione
Non è mai semplice stilare un bilancio delle Cop sul clima, se non altro perché è sempre difficile tenere nella giusta considerazione lo iato tra la retorica degli impegni che i Paesi assumono solennemente ogni anno e la concreta realtà delle azioni messe in campo per contrastare la crisi climatica. Così, anche le conclusioni sulle quali i negoziatori dei governi mondiali hanno trovato la quadra nelle primissime ore di domenica mattina (24 novembre) possono essere viste come un successo (seppur limitato) o come una sconfitta del multilateralismo climatico.
Tecnicamente, il compromesso raggiunto dai governi mondiali – che prevede l’istituzione di un fondo internazionale per la compensazione dei danni e delle perdite subite dai Paesi in via di sviluppo a causa del cambiamento climatico, per finanziare le misure di mitigazione e adattamento e per sostenere la costosa transizione ecologica nel sud del mondo – si può considerare positivo perché ha messo nero su bianco una cifra superiore a quella da cui erano partiti i negoziati: 300 miliardi di dollari all’anno anziché 100 (o 250, come da una precedente bozza di accordo) da qui al 2035, che dovranno essere scuciti dai Paesi industrializzati. Il nuovo obiettivo di finanza verde è “una polizza d’assicurazione per l’umanità” secondo il capo della Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici (Unfccc) Simon Stiell.
Le critiche all’accordo
Ma quella cifra è allo stesso tempo molto inferiore a quella che avevano chiesto molti Paesi in via di sviluppo: 1000 o addirittura 1300 miliardi all’anno fino alla metà del prossimo decennio. In effetti, quello dei 1300 miliardi annuali è stato mantenuto come obiettivo ideale da raggiungere anche attraverso altri mezzi (come gli investimenti privati e i contributi degli istituti finanziari internazionali), ma le nazioni del sud globale avrebbero voluto che gli impegni degli Stati industrializzati arrivassero da soli a toccare quel tetto.
Diverse delegazioni hanno espresso aspre critiche verso l’accordo. Ad esempio, la rappresentante indiana Chandni Raina ha bollato la cifra concordata dalle nazioni ricche come “abissalmente povera” e “irrisoria”, e ha definito il processo di adozione del documento (“poco più che un’illusione ottica”) come una “parodia di giustizia” per la sua opacità. L’inviata delle isole Marshall Tina Stege ha accusato gli Stati del nord globale del “peggior opportunismo politico”, mentre una rappresentante nigeriana ha chiamato “uno scherzo” il fatto che gli Stati sviluppati si vantino di guidare gli sforzi climatici sborsando solo 300 miliardi complessivamente ogni anno. Il delegato panamense ha denunciato l’atteggiamento delle nazioni industrializzate, che “ci tirano sempre addosso il testo (delle conclusioni, ndr) all’ultimo momento, ce lo ficcano in gola, e poi per amore del multilateralismo noi dobbiamo sempre accettarlo”.
Infine, forti critiche sono arrivate anche verso il tentativo (riuscito) degli Stati produttori di petrolio e gas di annacquare il testo dell’accordo finale, che ha richiamato l’impegno siglato l’anno scorso alla Cop28 di Dubai – dove si era fatto riferimento alla necessaria “transizione dai combustibili fossili” – ma senza menzionare esplicitamente le fonti energetiche che causano il riscaldamento globale e il cambiamento climatico. Il documento non cita nemmeno misure concrete su come accelerare il phasing out dei combustibili di origine fossile, per l’inclusione delle quali si erano spesi i negoziatori dell’Ue e dell’amministrazione Biden. “Pay up, phase out” è stato uno degli slogan più utilizzati dagli attivisti climatici a Baku (almeno quelli che non sono stati arrestati dalle forze di sicurezza azere).
Il contributo europeo
In un comunicato stampa la Commissione europea ha espresso soddisfazione per l’esito dei negoziati a Baku. Bruxelles ribadisce con orgoglio che “l’Ue è riuscita ad ampliare la base globale dei contribuenti ai finanziamenti per il clima” e che il team negoziale a dodici stelle ha “finalizzato con successo le norme che rafforzeranno l’integrità ambientale, la trasparenza e la responsabilità dei mercati internazionali del carbonio” come previsto dagli accordi di Parigi del 2015.
Quanto alla capacità delle economie industrializzate di prestare fede all’impegno assunto, il commissario uscente per il Clima Wopke Hoekstra ha dichiarato di essere “fiducioso che raggiungeremo l’obiettivo dei 1300 miliardi” di contributi entro il 2035. L’Ue ha anche proposto una nuova tabella di marcia per la riduzione delle emissioni di metano “per accelerare ulteriormente la riduzione delle emissioni di metano associate alla produzione e al consumo di combustibili fossili”, si legge nella nota del Berlaymont.
Chi mette i soldi?
Concretamente, è impossibile predire in anticipo quante di queste risorse verranno effettivamente messe sul tavolo per finanziare la lotta al cambiamento climatico e la transizione verde. Come da copione, uno dei nodi più complicati è stato quello su chi dovrà pagare.
Gli Stati industrializzati hanno fatto grandi pressioni sulla Cina affinché entrasse nel club dei donatori internazionali, dato il peso della sua economia (e il livello delle sue emissioni climalteranti), ma Pechino non vuole rinunciare al suo status ufficiale da Paese in via di sviluppo, perché questa etichetta le permette di sottrarsi a diversi obblighi che incorrono invece sulle economie avanzate. Alla fine, lo status della Repubblica popolare non è stato modificato, ma nel testo delle conclusioni si incoraggiano anche i Paesi in via di sviluppo a fare la loro parte, e sono stati inclusi tra i finanziatori anche gli istituti bancari di sviluppo di varie nazioni, inclusa la Cina.
Un’altra ombra che si è allungata sulla Cop29 è stata poi quella proiettata dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca il prossimo gennaio, dato che il tycoon newyorkese ha già dichiarato l’intenzione di ritirare nuovamente gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi come già fatto durante il suo primo mandato.