L’avvento della digitalizzazione ha modificato radicalmente il mercato globalizzato. Inedite opportunità di lavoro, sviluppo di nuovi mercati, trasferimento di capitali finanziari e nuove figure professionali sono solo alcune delle conseguenze dell’impiego della tecnologia digitale nella produzione e commercializzazione di beni e servizi.
I dati del mercato digitale sono in costante crescita: secondo il report Eurostat 2023 sulla digitalizzazione, nel 2022 il 68,1% degli europei acquistava online beni di consumo, per un mercato dal valore di quasi 870 miliardi di euro (report Ecommerce Europe 2024). Ad oggi, più di 1 milione di imprese nell’Unione europea vende beni e servizi tramite piattaforme digitali.
Malgrado la concentrazione del settore attorno a pochi grandi players, capaci di influenzarne le dinamiche, un sempre maggiore numero di imprese, anche di piccole e medie dimensioni, ha deciso di sfruttare le possibilità offerte dal mercato online, grazie al quale oltre il 50% di queste, vendendo a livello transfrontaliero, è riuscita a raggiungere nuovi mercati.
All’interno di questo mutato scenario economico, di primaria rilevanza è, come noto, il mercato delle piattaforme digitali (anche detto “gig economy”) che si caratterizza per la fornitura di servizi, regolata dalla piattaforma digitale, a richiesta dell’utente. Si tratta di un modello ormai diffuso in numerosi settori, dalla consegna di cibo a domicilio (rider), al trasporto di persone o cose, sino ai servizi di assistenza e di noleggio di beni.
Secondo gli studi della Commissione europea, solo nel 2020, prima che la crisi pandemica ne determinasse un’ulteriore crescita, il mercato delle piattaforme digitali contava già un indotto di circa 14 miliardi di euro e una massa di lavoratori impiegati pari a 28 milioni (numero che si stima possa arrivare nel 2025 a 43 milioni). Sotto questo ultimo profilo, appare evidente come la “gig economy” abbia determinato profonde trasformazioni nel mercato del lavoro.
Proprio tali trasformazioni, e il conseguente impatto che esse hanno avuto sul modo di fare impresa, hanno spinto le istituzioni dell’Unione europea a regolamentare il settore in modo da prevenirne eventuali abusi e distorsioni. Tra gli interventi normativi più recenti, vi è stata l’adozione della Direttiva (UE) 2024/2831 relativa al miglioramento delle condizioni di lavoro mediante piattaforme digitali.
La Direttiva, è bene sottolinearlo, non riguarda l’intera “gig economy” ma solo le piattaforme di lavoro digitale che impegnano persone fisiche o giuridiche in un servizio fornito, almeno in parte, a distanza tramite strumenti elettronici, su richiesta dell’utente, e svolto da lavoratori in maniera organizzata da sistemi automatizzati (art. 2). Elemento cruciale al fine dell’individuazione del perimento applicativo della Novella, è l’organizzazione del lavoro altrui da parte della piattaforma online, simile per questo aspetto ad una forma di intermediazione del lavoro. Rimangono quindi estranee quelle piattaforme digitali che, pur fornendo i mezzi per collegare domanda ed offerta, non organizzano il lavoro delle persone impiegate: si pensi, ad esempio, alle piattaforme per la rivendita di beni o vestiti usati ovvero quelle per la locazione di alloggi turistici.
Il legislatore europeo, da tempo consapevole del sempre maggior numero di persone coinvolte nel mercato digitale, si era già concentrato sullo status giuridico dei relativi lavoratori. Dapprima, aveva emanato la Direttiva (UE) 2019/1152 sulle condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili e la Direttiva (UE) 2019/1158 sull’equilibrio tra vita e lavoro e, successivamente, la Direttiva (UE) 2022/2041 sui salari minimi adeguati.
Tuttavia, il Legislatore europeo aveva presto preso atto che le tutele apprestate con i precedenti atti normativi non trovavano applicazione nel mercato delle piattaforme digitali poiché, spesso, le persone impiegate venivano qualificate come lavoratori autonomi, risultando dunque inapplicabile il particolare statuto giuridico riservato ai lavoratori subordinati. Tale qualificazione comportava l’assoggettamento della manodopera a peggiori condizioni contrattuali, sia con riguardo al regime salariale, sia con riguardo all’orario di lavoro e alle ferie, oltre ad impedire l’accesso a misure di protezione sociale.
Anche alla luce di tali criticità, la Direttiva (UE) 2024/2831 ha imposto agli Stati membri l’obbligo di introdurre, entro due anni, una presunzione legale di rapporto di lavoro subordinato; questa, applicabile in tutti i giudizi civili e amministrativi, comporta l’inversione dell’onere della prova per la diversa qualificazione del rapporto di lavoro a carico della piattaforma e opera “qualora si riscontrino fatti che indicano direzione e controllo” (art. 5).
Di non secondo momento è poi la convergenza della legislazione unionale su una definizione europea di lavoratore subordinato, fondata sulla sussistenza di un potere direttivo e di controllo del datore di lavoro. Si tratta di una definizione che, seppur non particolarmente innovativa per gli ordinamenti di Paesi già da tempo sensibili alle tematiche in questione, come la Francia e l’Italia, potrebbe in ogni caso offrire un efficace strumento per una tutela omogenea nel territorio di tutti gli Stati membri.
La previsione di una presunzione di subordinazione, unitamente all’armonizzazione dello status giuridico dei lavoratori digitali, oltre a garantire maggiori tutele agli impiegati del settore, è altresì fondamentale per abbattere il vantaggio competitivo che le grandi piattaforme digitali vantano rispetto agli altri competitors che già riconoscono ai lavoratori un migliore trattamento.
Il Legislatore ha poi posto particolare attenzione al tema del trattamento dei dati personali delle persone impiegate dalle piattaforme, giacché la prestazione lavorativa è erogata ricorrendo a dispositivi digitali capaci di elaborare un grande varietà di informazioni, anche al di fuori dell’orario di lavoro. Si pensi anche solo al lavoro dei rider che utilizzano un’app installata sul proprio smartphone che, oltre a poter memorizzare dati privati del lavoratore, è anche in grado di tracciarne gli spostamenti.
Per far fronte a tali esigenze, la Direttiva, da un lato, ha introdotto, sulla scia del GDPR e IA Act, il divieto di trattare dati personali dei lavoratori relativi allo stato emotivo o psicologico, alla salute e a conversazioni private (art. 7) e, dall’altro, ha previsto la necessità di adottare una valutazione di impatto ai sensi dell’art. 35 GDPR interpellando direttamente gli stessi lavoratori (art. 8). Il Legislatore ha infatti ritenuto che il trattamento di dati tramite sistemi automatizzati determini sempre “un rischio elevato per i diritti e le libertà delle persone fisiche”.
Con riguardo invece alla gestione del lavoro, la Direttiva ha inteso rendere più trasparente l’utilizzo degli algoritmi nei sistemi automatizzati di monitoraggio e di decisione; ciò attraverso l’obbligo di adottare – presentandolo al lavoratore e, su richiesta, alle autorità nazionali, “in forma concisa, trasparente, intelligibile” – un documento informativo riguardante l’utilizzo o l’introduzione di tali sistemi, le categorie di dati monitorati ed i tipi di decisioni prese, i destinatari del trattamento dei dati, nonché i motivi di base delle decisioni assunte (art. 9). In questo modo, oltre a rendere edotto il lavoratore sul funzionamento dei sistemi di gestione del proprio lavoro, la finalità è quella di indurre le piattaforme digitali ad un utilizzo più responsabile e prudente dei citati sistemi.
Inoltre, la Direttiva persegue lo scopo di evitare una gestione meramente algoritmica del lavoro e, a tale proposito, ha imposto alle piattaforme di effettuare regolarmente una valutazione dell’impatto delle decisioni automatizzate sui lavoratori, con la partecipazione dei rappresentanti degli stessi (art. 10). Al contempo, ha previsto il necessario riesame umano delle decisioni e il diritto dei lavoratori ad una motivazione scritta a giustificazione delle stesse (art. 11). In questa prospettiva, è assai rilevante che qualsiasi decisione di limitare, sospendere o risolvere il rapporto di lavoro dovrà essere presa da un essere umano.
Tra gli aspetti più critici vi è poi certamente la questione attinente il rischio di eventuali condotte discriminatorie nell’affidamento di incarichi e lavori tra le diverse categorie di impiegati, problematica sempre più attuale proprio tra le frange dei lavoratori “digitali” a chiamata.
Per questo motivo, la normativa ha inteso perseguire una maggiore trasparenza della gestione delle piattaforme, con lo scopo altresì di monitorare i flussi di manodopera e ostacolare il ricorso a illegittime forme di intermediazione di lavoratori. Conseguentemente, all’art. 16, la Direttiva ha previsto l’obbligo per le piattaforme di lavoro digitale di dichiarare il lavoro svolto dai lavoratori alle autorità competenti dello Stato membro ove la prestazione è effettuata, nonché di mettere a disposizione delle stesse i dati inerenti al numero di persone impiegate, ai termini e alle condizioni contrattuali e agli eventuali intermediari con cui la piattaforma ha rapporti contrattuali (art. 17).
Infine, il Legislatore europeo mostra grande interesse per la salute fisica e psichica dei lavoratori, anche nel luogo di lavoro. Coerentemente, all’art. 12 ha introdotto l’obbligo per gli Stati di provvedere affinché le piattaforme digitali adottino determinate misure preventive, come canali di segnalazione efficaci per agevolare l’emersione di eventuali atti di violenza o molestie durante l’orario di lavoro.
In conclusione, l’intervento delle istituzioni unionali, preso atto dell’espansione dell’economia digitale, è centrale per fornire regole chiare ad un mercato che coinvolge sempre più utenti e lavoratori. In questa prospettiva, i continui interventi legislativi non devono intimorire le imprese che intendono investire nel settore digitale, bensì renderle consapevoli della necessità di adottare modelli di organizzazione conformi al nuovo framework normativo: un rinnovato modo di fare “impresa” capace di saldare, anche attraverso l’adeguata gestione dei processi informatici, le esigenze di business con la tutela delle condizioni dei lavoratori. In linea con un’impostazione ormai consolidata, l’UE indica la via per un modello aziendale consapevole delle implicazioni della propria attività nell’intero ecosistema europeo, dalla salvaguardia dell’ambiente sino, come in questo caso, alla tutela dei lavoratori.
*Riccardo Borsari è avvocato e professore di diritto penale all’Università di Padova