Bruxelles – Un ex-europarlamentare italiano del Ppe è stato definitivamente condannato dalla Corte di giustizia dell’Ue a pagare 250mila euro per frode al Parlamento europeo. Al centro delle verifiche dell’ufficio anti-frode del Parlamento (Olaf), l’assunzione fittizia di un’assistente parlamentare e il pagamento di somme ad una società, di cui l’assistente era l’unica socia.
LOlaf ha aperto il fascicolo a carico di Crescenzio Rivellini (Fi/Ppe), presente a Bruxelles dal 2009 al 2014 nei popolari. L’ufficio anti-frode dell’Ue ha indagato sull’assunzione della sua assistente parlamentare, visti i 25mila euro richiesti come rimborso per le spese e l’assenza di documenti che provassero il suo lavoro e sugli oltre 220mila euro richiesti per l’esecuzione dei cosiddetti “contratti controversi”.
Questi contratti sarebbero stati stipulati con una società che avrebbe prestato servizi a Rivellini durante il suo mandato. Peccato che la società avesse come unica socia la sua assistente, che, tra parentesi, era anche la compagna storica dell’eurodeputato, come lui stesso dice nel suo libro (“Bianca Maria D’Angelo era da dieci anni la compagna della mia vita”, per citarne un estratto).
‘Bonnie e Clyde all’europea’ sono stati scoperti dall’Olaf e l’ex-parlamentare europeo condannato dalla Corte di giustizia dell’Ue. Rivellini non avrebbe mai fornito alcuna prova dell’impiego effettivo di D’Angelo, sfruttando la presunta mancanza di chiarezza di quali siano i compiti che deve svolgere un assistente parlamentare.
L’ex esponente del Ppe ha cercato di oltrepassare le regole dello Statuto dei deputati del Parlamento europeo, che prevede la necessità di giustificare le spese anche per il personale alla dipendenza dei deputati. I giudici di Lussemburgo hanno chiarito che “il deputato deve in particolare produrre i documenti giustificativi relativi alle attività dell’Assistente parlamentare e, pertanto, conservarli, e ciò anche in assenza di un obbligo esplicito”.
Rivellini ha tentato di dimostrare che D’Angelo avesse un badge per entrare, ma di nuovo la Corte ha smontato la sua tesi, stabilendo che “la sola presenza fisica dell’assistente parlamentare nei locali del Parlamento […] non può essere sufficiente a dimostrare l’effettività dell’esecuzione di compiti”. In aggiunta, D’Angelo non risiedeva nemmeno a Bruxelles nel periodo in cui, teoricamente, sarebbe stata quotidianamente impegnata nel lavoro in Parlamento.
Riguardo alle società, lo Statuto degli eurodeputati specifica che non ci debbano essere conflitti di interessi. Rivellini ha tentato di contestare la relazione tra lui e D’Angelo, nonostante il libro che diceva il contrario e che la Cgue ha potuto usare come prova. Un bell’autogol per l’ex eurodeputato, che ha scritto nero su bianco la sua autodenuncia e la presenza di un evidente conflitto di interessi.
In aggiunta, la validità dei versamenti effettuati non è mai stata provata dal Parlamento, mancando le “notifiche (del Parlamento) che certificano la regolarità dei pagamenti effettuati in virtù dei ‘contratti controversi'” e l’evidenza che i pagamenti fossero collegati ai contratti siglati. Per cui i 220mila euro non avevano assolutamente titolo per essere rimborsati dal Parlamento.
Da qui la condanna e la richiesta di risarcimento per Rivellini. Il quale, ironia della sorte, durante il suo mandato europeo è stato parte della commissione per il Controllo di bilancio, che si occupa di verificare la trasparenza e la gestione efficiente dei fondi europei, mantenendo stretti rapporto con l’ufficio anti-frode.