Bruxelles – C’era una volta l’estrema destra che, in Europa, stava all’opposizione della maggioranza centrista che guidava le istituzioni comunitarie. Finché il Partito popolare (Ppe) di centro-destra e i Socialisti (S&D) di centro-sinistra davano le carte sia all’Eurocamera che al Consiglio europeo, decidendo dunque composizione e priorità della Commissione (magari puntellandosi con i liberali di Alde/Renew), la destra radicale è rimasta a lungo esclusa dai tavoli che contano. Ma dopo una serie di elezioni, sia europee che nazionali, in cui quest’ultima ha visto crescere sensibilmente i propri consensi, gli equilibri in Ue sono cambiati. E il caso dei Fratelli d’Italia della premier Giorgia Meloni rappresenta in modo plastico questo sbilanciamento dell’asse politico nel Vecchio continente.
C’è poco da girarci intorno: l’Unione si è spostata con decisione verso destra. Lo certificano, da un lato, i risultati delle elezioni al Parlamento europeo, dove i tre gruppi a destra dei Popolari (i Conservatori dell’Ecr, i Patrioti di PfE e i sovranisti dell’Esn) detengono complessivamente 187 seggi su 720, e dall’altro la composizione dei governi nazionali al Consiglio europeo, dove la maggior parte degli esecutivi degli Stati membri hanno al proprio interno almeno un partito della destra radicale o dipendono dal loro supporto esterno.
Di questo scivolamento del baricentro politico europeo si sono resi ampiamente conto i cristiano-democratici, che da ben prima delle europee dello scorso giugno hanno ripetutamente tentato di cooptare nell’area di maggioranza quelli che la presidente della Commissione (sia quella uscente che quella nascitura) Ursula von der Leyen ha definito “elementi sani” della destra: i partiti, cioè, che rispettano lo Stato di diritto, che sono europeisti e che sostengono l’Ucraina contro la Russia.
Il flirt della Spitzenkandidatin del Ppe con la premier italiana è stato per mesi sulle prime pagine dei giornali, fino a quando, al momento di scegliere i top jobs del nuovo ciclo istituzionale, Meloni ha deciso di bocciarne due su tre per astenersi sul bis a von der Leyen. Il mese successivo, alla plenaria inaugurale della nuova legislatura tenutasi a luglio a Strasburgo, la pattuglia degli eurodeputati meloniani (la più folta all’interno dell’Ecr con 24 eletti) ha votato contro la conferma della popolare tedesca alla guida dell’esecutivo comunitario, additando come insostenibile la ricerca di consensi “a sinistra” per il suo secondo mandato.
Eppure, fiutando la direzione che l’Europa seguirà nei prossimi cinque anni, von der Leyen ha deciso di consegnare per la prima volta una vicepresidenza esecutiva del Collegio – il prossimo sarà il più a destra di sempre – ad un esponente dell’Ecr, l’attuale ministro agli Affari europei (con deleghe al Sud e al Pnrr) Raffaele Fitto, membro del cerchio magico di Meloni.
E qui si compie la giravolta politica di FdI. Durante un briefing per la stampa tenutosi venerdì (18 ottobre) in previsione della seconda plenaria di ottobre, l’eurodeputato meloniano Ruggero Razza ha ammesso che, se le audizioni dei commissari designati andranno bene, la delegazione italiana dell’Ecr (e forse l’intero gruppo) darà la fiducia al nuovo Collegio nella sua interezza nel voto che dovrebbe tenersi tra il mese prossimo e l’inizio di dicembre.
Il che non si pone, dice lui, in contraddizione con i comportamenti dei Conservatori nei mesi scorsi: “Il voto che il gruppo Ecr ha espresso nella prima votazione (quella di luglio a Strasburgo, ndr) è anche l’espressione e, se volete, la continuità politica del voto che il governo italiano aveva espresso al pacchetto di nomine” per i vertici delle istituzioni comunitarie, ha dichiarato. Per poi aggiungere che “oggi c’è un contesto diverso: la presidente von der Leyen ha presentato la sua Commissione, le audizioni ci auguriamo possano confermare l’impianto della Commissione, e quindi è ragionevole pensare che il voto della delegazione di Fratelli d’Italia sarà assolutamente conseguente rispetto alle audizioni”.
Tradotto: se i Popolari ci aiutano a difendere Fitto dal fuoco incrociato di Socialisti, liberali, Verdi e Sinistra, i Conservatori sosterranno il nuovo Collegio a trazione Ppe (15 su 27 membri). Razza si è poi schermito preventivamente da eventuali accuse di doppiogiochismo, buttandola sulla responsabilità di governo: “Sarebbe molto singolare”, ha detto, anzi addirittura “assolutamente irrazionale, che il principale partito che guida il governo italiano si esprima contro una Commissione che ha il proprio ministro della Coesione come vicepresidente”. Pare insomma che i meloniani si siano ricordati di essere al governo della terza economia Ue solo ora che è stata loro concessa una vicepresidenza esecutiva, dimenticandosene invece quando era il momento di confermare proprio colei che quella vicepresidenza aveva la facoltà di offrirla.
Una fine scommessa politica, vinta contro i pronostici, o un calcolo andato male ma risoltosi poi positivamente? Quello che emerge, comunque la si veda, è il rischio che si profilino due maggioranze politiche diverse tra l’Aula di Strasburgo e la Commissione. Come denunciato, allo stesso briefing, dall’eurodeputata Pd Annalisa Corrado, secondo la quale “è evidente che il rischio di una doppia maggioranza” sia reale, e andrà ora valutato dall’Eurocamera se i futuri commissari “saranno nelle condizioni” di portare avanti l’incarico loro affidato “senza creare una sorta di sabotaggio interno” nel lavoro del prossimo Collegio e nei suoi rapporti con l’emiciclo.
Quale sarà dunque la maggioranza che reggerà l’Europa da qui al 2029? Rimarrà quella che ha permesso la rielezione di von der Leyen o sarà diversa, come auspicano i rappresentanti delle destre all’Europarlamento? Socialisti e liberali non riconoscono i Conservatori (e tantomeno Patrioti e sovranisti) come alleati, né questi intendono avere nulla a che spartire con i primi. A dare uno sguardo alla geografia politica dell’Aula, i numeri raccontano in realtà una storia ancora diversa, più fluida.
Il Ppe è in una posizione dominante perché, dopo aver aumentato i propri seggi, può ora adottare la proverbiale politica dei due forni: collaborare con i partner della maggioranza “formale” su alcuni dossier e, sugli altri (ad esempio sulla migrazione, o sul futuro del Green deal), fare asse con le destre. Le prove tecniche ci sono già state: con il voto sulle sanzioni all’autoproclamato presidente venezuelano Nicolas Maduro e con la definizione del calendario per le audizioni dei commissari designati. Ora bisogna vedere come andrà la messa in scena dello spettacolo.