Bruxelles – Per ora non ci sono documenti ufficiali, e tantomeno cifre precise cui riferirsi, ma nella capitale europea continuano a rincorrersi le voci sulla rivoluzione che la presidente della Commissione Ursula von der Leyen starebbe per mettere in atto con il prossimo budget comunitario, che coprirà il periodo di bilancio 2028-2034. Secondo le (poche) informazioni disponibili ad oggi, la struttura stessa del Quadro finanziario pluriennale (Qfp, o Mff nell’acronimo inglese) verrà stravolta nella direzione di una centralizzazione delle competenze e della discrezionalità politica, che saranno concentrate ancora di più nelle mani dei governi nazionali.
Il cruccio del capo dell’esecutivo comunitario parrebbe essere lo stesso dell’ex premier italiano Mario Draghi: la perdita di competitività dell’Ue nei confronti dei colossi dell’economia globale, Cina e Stati Uniti. E così, per incentivare gli Stati membri a darsi da fare, von der Leyen vorrebbe rimodellare il prossimo Qfp sulla falsariga del fondo europeo per la ripresa e la resilienza (Rrf), dal quale dipendono i piani nazionali (i famigerati Pnrr). Vale a dire: gestione centralizzata – cioè nazionale – delle risorse e condizionalità degli esborsi alla progressiva realizzazione di riforme più o meno strutturali.
Significa che le cancellerie avrebbero un margine di manovra molto maggiore per decidere come spendere i fondi europei, i quali non proverrebbero più da programmi stabiliti a livello comunitario ma verrebbero ripartiti proporzionalmente tra i Ventisette in base a una serie di criteri (verosimilmente popolazione, Pil e altri indicatori del genere). Non più una pletora di programmi comuni, cui ogni Stato membro attinge (attualmente sono oltre 530), ma 27 piani nazionali che comprendono le risorse per tutte le priorità indicate da Bruxelles. In teoria, questa riforma dovrebbe mirare ad una complessiva semplificazione del budget monstre dell’Unione, nonché ad assicurare che il bilancio europeo venga protetto (ad esempio contro le violazioni dello Stato di diritto).
I due fondi che più degli altri verrebbero colpiti da questa rivoluzione sarebbero quelli su cui si reggono la politica agricola comune (Pac) e la politica di coesione, ciascuna delle quali “consuma” attualmente circa un terzo del bilancio Ue. Questo, almeno nei piani di von der Leyen, dovrebbe consentire di liberare maggiori risorse per la difesa e la sicurezza, per gli investimenti nelle tecnologie strategiche (anche attraverso la piattaforma Step) e per lo sviluppo di una politica industriale europea.
A premere in questa direzione, neanche a dirlo, sono soprattutto i cosiddetti “frugali”, Germania in testa, ma anche Paesi Bassi e scandinavi, mentre l’idea di stravolgere Pac e coesione fa storcere il naso ad altre cancellerie, tra cui quella francese e polacca. Parigi è la prima beneficiaria lorda dei fondi agricoli europei: nel periodo di bilancio attuale (2021-2027), la Francia dovrebbe intascare un totale di oltre 386 miliardi di euro solo da questa voce del budget comunitario. Varsavia è invece lo Stato membro che riceve più fondi di coesione: 392 miliardi nel settennato in corso.
Ironicamente, la persona incaricata di portare avanti da parte dell’esecutivo comunitario questa riforma del bilancio pluriennale è proprio il polacco Piotr Serafin, già consigliere dell’attuale premier Donald Tusk quando questi era presidente del Consiglio europeo tra il 2014 e il 2019. Nella lettera di missione del commissario designato al Bilancio si legge che tra le sue mansioni ci sarà quella di “sviluppare un nuovo approccio per un budget moderno e rafforzato”, che non sia più “basato sui programmi” ma sulle priorità politiche del nuovo Collegio. E che al centro dovrà esserci “un piano per ciascun Paese che colleghi le riforme chiave agli investimenti”, da realizzarsi “dove l’azione dell’Ue è più necessaria”.
Tra i più vocali oppositori di questo approccio c’è invece il Comitato delle Regioni (CdR), che di recente ha criticato duramente la “nazionalizzazione” della politica di coesione che deriverebbe dalla riforma targata von der Leyen-Serafin (e nella quale sarebbe coinvolto anche il commissario designato italiano Raffaele Fitto, che dovrebbe ottenere proprio la delega alla Coesione). Per le autorità regionali e locali, cambiare la struttura della governance per affidarla agli Stati significa snaturare la stessa ratio della politica di coesione, che perderebbe di conseguenza il legame con i territori e finirebbe per politicizzarsi ancora di più diventando una pedina nei rapporti di forza tra Bruxelles e le capitali.
I negoziati per il prossimo Qfp si apriranno formalmente nel 2025 (forse addirittura in autunno), e si annunciano molto caldi. Il braccio di ferro è appena cominciato e c’è da scommettere che durerà a lungo. Uno dei punti politicamente più sensibili sarà la questione delle risorse proprie, cioè quelle che l’Ue può raccogliere autonomamente senza passare per le contribuzioni nazionali. Da tempo immemore si discute sulla possibilità di emettere debito comune a livello comunitario: storicamente è sempre stato un tabù per il suddetto club dei rigoristi, i quali però hanno concesso un’eccezione con il Next Generation Eu per la ripresa post-pandemica, che verrà finanziato raccogliendo soldi sui mercati internazionali tramite titoli garantiti da tutti e ventisette gli Stati membri.
Ma nonostante le pressioni di Parigi, Roma e Madrid, non è detto che il giochetto si possa ripetere, almeno a sentire l’aria che tira, ad esempio, a Berlino – dove la Cdu/Csu, cui appartiene la stessa von der Leyen e che probabilmente tornerà al governo il prossimo settembre, si oppone con forza ad ogni tipo di eurobond. Finora, sul tema, la presidente dell’esecutivo comunitario ha sempre rimandato la palla nella tribuna dei governi nazionali.