Bruxelles – “I giornalisti non dovrebbero essere perseguiti per aver fatto il loro lavoro. Il giornalismo non è un crimine“. Parla per la prima volta da uomo libero, Julian Assange. Il fondatore di Wikileaks, dopo aver concordato il ‘perdono’ con le autorità degli Stati Uniti per la diffusione di documenti secretati che gli sono valsi l’ordine di arresto per cospirazione, compare all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa per ripercorrere la sua storia e denunciare un sistema, quello democratico, e un modello, quello occidentale, che lui considera come ‘malato’. Accusa ‘il sistema’, e affonda il colpo contro lo zio Sam.
“La base politica per gli atti punitivi del governo degli Stati Uniti contro di me era in relazione alla pubblicazione della verità su ciò che il governo degli Stati Uniti aveva fatto”, dice in riferimento alla pubblicazione di documenti riservati sulle guerra in Afghanistan e in Iraq, che documentano crimini commessi dai soldati statunitensi. Il problema, dice, è che Washington ha oltrepassato un limite che è anche un precedente pericoloso.
“È difficile non tracciare una linea tra il governo degli Stati Uniti che attraversa il Rubicone criminalizzando a livello internazionale il giornalismo e il freddo clima attuale per la libertà di espressione”. Assange costruisce la sua difesa, che è attacco diretto, sulla storia. Cita il momento in cui Giulio Cesare decise di riscrivere l’ordine costituito e il destino della Roma antica, attraversando il fiume che segnava il confine naturale tra l’Urbe e il resto del mondo. Nel 49 a.C. Cesare sfidò il Senato, penetrando con un suo piccolo esercito laddove non era ammessa presenza militare. Cesare imboccava la strada dell’illegalità per rovesciare logiche e ordini. E’ quello che, avverte Assange, in era contemporanea hanno fatto gli Stati Uniti.
Al consiglio d’Europa accusa il Paese a cui l’Europa guarda, da sempre, come modello di riferimento, di aver “criminalizzato” il giornalismo e la libertà di stampa, fattori chiave per la valutazione dello stato di salute di una democrazia. “Voglio essere assolutamente chiaro: non sono libero perché il sistema ha funzionato. Sono libero perché mi sono dichiarato colpevole di aver fatto giornalismo“. Una denuncia, quella di Assange, portata laddove i diritti dovrebbero essere tutelati, salvaguardati, garantiti. A questo serve il Consiglio d’Europa, è per questo che l’organizzazione internazionale è nata.
Ricorda i suoi ultimi anni vita, 12, tra residenza coatta e detenzione, prima nell’ambasciata ecuadoriana in Regno Unito e poi nel carcere britannico di Belmarsh. Prigioniero politico prima, criminale durante e ancor più dopo. Un aspetto, quest’ultimo, su cui insiste: “La criminalizzazione delle attività di raccolta di notizie è una minaccia per il giornalismo investigativo ovunque“.
In mezzo a tutto questo ci sono anche le accuse nei suoi confronti per altri reati, come quella di stupro, poi archiviata. Tentativi di negare diritti acquisiti, formalmente riconosciuti, e che a detta del fondatore di Wikileaks dimostrano “le debolezze delle garanzie esistenti”. Assange non si pente. Ha patteggiato per evitare altro carcere. E’ un esempio, che lui stesso non può annoverare tra i migliori. Perché la morale della sua vicenda è che alle fine “la libertà di espressione è a un bivio oscuro“.