Ursula von der Leyen esattamente cinque anni fa era una sconosciuta donna politica tedesca, che era stata ministro del Lavoro e poi della Difesa, in un Paese nel quale, ai tempi, l’esercito era talmente male in arnese che per le esercitazioni si dovevano usare fucili di legno. Era benvoluta da Angela Merkel, e Emmanuel Macron cadde nel tranello dell’allora cancelliera, perché pur di non rispettare il principio dello spitzenkandidat, scalzò Manfred Weber da un ruolo che avrebbe dovuto esser suo in quanto leader europeo del Ppe, e sostenne la nomina di questa signora, all’apparenza mite e delicata, che si è poi rivelata fatta della stessa pasta di Merkel: acciaio, non temperato.
Macron era convinto di avere il controllo sulla Commissione. E’ poi finita che cinque anni dopo von der Leyen gli ha imposto di cambiare il candidato commissario perché era troppo forte, e con lui aveva sempre avuto un pessimo rapporto. Quest’uomo, Thierry Breton è “pappa e ciccia” con Macron, ha una statura internazionale notevole, non è il primo che passa. Mentre è il primo che passa il suo sostituto, il giovane Stéphane Séjournè, che nessuno ha mai giudicato uomo di un qualche spessore politico, ed è anche uno che non ha mai mostrato particolare passione per Bruxelles.
Von der Leyen arrivò a Bruxelles da quasi sconosciuta, muoveva i suoi primi passi nel 2019, quando nel 2020 arrivò il Covid e lei, per la prima volta, mostrò che carattere aveva e cosa era in grado fare. In sostanza, dopo qualche settimana, mise tutti i governi in linea e si prese la gestione della pandemia. Facendo anche secondo la maggioranza degli osservatori, un ottimo lavoro. Finisce la pandemia e inizia, nel 2022, l’invasione russa dell’Ucraina. Qui il ruolo è stato meno evidente forse, perché anche la Nato ha fatto la sua parte, ma anche qui è riuscita a mettere tutti (o quasi) in fila un un solido fronte di sostegno a Kiev.
In tutto questo, negli anni, veniva fuori il suo carattere fermo, ma anche molto autoritario e centralista. Si è capito che le decisioni le condivideva con pochi fedelissimi, che teneva molti commissari fuori dalla stanza dei bottoni, che, insomma, è un’accentratrice determinata. Anche su questo si scontrò con Breton ed altri commissari.
Nel 2024 alle elezioni europee la candidata leader per il Ppe non poteva che essere lei, presidente uscente della Commissione. E il Ppe ha vinto le elezioni.
A qual punto von der Leyen ha avuto in mano tutto, e, questa volta in perfetto allineamento con Manfred Weber in una ritrovata alleanza, l’ha gestito come ha voluto. Lei, donna di destra, ha accettato i voti dei Verdi per la sua conferma, tenendo lontani, in apparenza, quelli dei Conservatori, perché altrimenti avrebbe perso i socialisti e anche una parte dei popolari.
Poi, però, quando forma la sua seconda Commissione, e tutti hanno le mani molto più legate perché l’equilibrio da trovare è difficile, ed una volta trovato tutti hanno tanto da perdere, decide di dare una vice presidenza decisamente pesante ad un esponente dell’Ecr, Raffaele Fitto (anche se poi la reale influenza dovrà esser vista nello spazio di autonomia che la presidente effettivamente concederà al membro italiano del collegio). A questo punto la svolta è fatta, visto che 15 membri dell’esecutivo europeo sono del Ppe, uno è di Ecr ed uno dei Patrioti per l’Europa (come “indipendente”, ma essendo da anni il plenipotenziario di Victor Orban a Bruxelles certo è uomo fedele al leader del fondatore dei Patrioti).
Viene insomma il dubbio che von der Leyen abbia una finezza politica non da poco, e che il voto contrario che ebbe dall’Ecr alla sua conferma fosse in realtà la copertura concordata in cambio di una vice presidenza pesante per ottenere il mandato. Ora diventa difficile per Socialisti, Verdi e qualche popolare dissenziente votare contro il collegio nel suo complesso. E il collegio ha la forma che von der Leyen desiderava, il più a destra possibile.