Il calcio, si sa, è uno sport imprevedibile. Grandi squadre promesse a folgoranti vittorie talvolta vanno allo sbando davanti a esaltati dilettanti, campioni capaci di gesta mirabolanti si fanno prendere dalla malinconia e non combinano più nulla di buono, anzi con il loro cattivo umore mandano a carte quarantotto tutta la squadra.
Non abbiamo ancora capito quale sortilegio affligge la nazionale che Spalletti ha portato agli europei. Sulla carta e nelle loro rispettive squadre, sono tutti giocatori di razza, fra giovani promettenti e più rodati professionisti. Ma una mano invisibile sembra trattenerli quando scagliano il tiro fuori dalla porta, quando il passaggio finisce fra i piedi sbagliati, quando tutti i rimpalli sono sfavorevoli. C’è un invisibile dodicesimo uomo in campo che gioca contro di loro. Ma nessuno riesce a vederlo e a smascherarlo.
Bisogna dunque cercare nel mondo dell’imponderabile e del soprannaturale, verificare che la Nazionale non abbia per caso offeso qualche divinità sconosciuta, come accadeva agli antichi eroi e se del caso compiere l’opportuno sacrificio.
C’è un ambito fumoso della simbologia calcistica che non è abbastanza esplorato ma che si presta a letture esoteriche: l’abbigliamento degli allenatori. L’allenatore a bordo campo è sempre l’uomo più infelice che ci sia. Perché è calciatore ma non gioca, però può essere ammonito o espulso, ad ogni azione che i suoi conducono, lui avrebbe fatto diverso e sbraita inutilmente per spiegarglielo ma loro neanche lo sentono. E questa sua irrequietudine trapela nell’abbigliamento. C’è l’allenatore in tuta da ginnastica e giacca a vento, in stile anni Ottanta, come quello della Scozia, che siede scontento fra le riserve, anche loro in tuta. Dà l’impressione di usurpare il posto e sembra venuto lì per un trekking, ma alla fine è la sua la tenuta più onesta.
Poi c’è la vasta panoplia degli allenatori in giacca e cravatta, come quelli di Ungheria, Inghilterra e Albania, che quando sono troppo eleganti sembrano fuggiti da un matrimonio, altrimenti hanno l’aria di economisti dell’antico COMECON, si vede che quel vestito lo tengono nell’armadio solo per le partite e anche a distanza si sente la naftalina.
Poi c’è la panoplia degli allenatori eleganti ma “casual”, con la giacca blu sopra la camicia bianca, come quello della Francia, buona per una serata in discoteca ma troppo per una partita.
E infine ci sono quelli dagli abiti destrutturati, come gli allenatori di Spagna, Albania e Svizzera, con giacchetta informe sopra maglietta girocollo, quello dell’Albania con un’aria da pastore protestante, lo svizzero-turco Murat, con piglio da cantante di balera, lo spagnolo tutto in blu come Capitan Findus ma con le scarpe da sport per ricordare che siamo comunque in campo.
Tradizionalmente, gli allenatori italiani hanno sempre prediletto l’eleganza, quasi sfrontata, di abiti cuciti su misura e firmati da grandi sarti. Pochi si sono mai azzardati alla tuta. Lo faceva qualche volta Sacchi, ma si vedeva che non era a suo agio. In molti tornei, l’allenatore italiano era l’unico di tutto lo stadio a portare una tal giacca e cravatta che neanche il re dal suo palco. E qui viene l’arcano che i nostri sciamani devono esplorare.
Questa giacchetta di Spalletti blu carta da zucchero con la scritta ITALIA in tonalità più scura sulla schiena, non è che porta sf…? Questa panchina italiana tutta azzimata, con le scarpe lucide e la penna nel taschino, che sembra il “team” di un autonoleggio all’aeroporto, non è che sfida gli dei del calcio e stuzzica la rappresaglia? Spalletti che si agita a bordo campo come fosse a un défilé, con quell’aria dannunziana fintamente maledetta, invece uniformemente abbronzata anche sulla pelata, e le falde di cotone Jersey che sventolano ariose ai suoi pugni tesi ma attenti a non strappare l’ascella, ché la moda oggi esige lo “slim fit” e così mica tutte le gesticolazioni sono ammesse all’allenatore furioso, questa stucchevole esibizione di stoffe forse non piace niente alla dea Eupalla, come la chiamava Gianni Brera, che ha le sue idiosincrasie e sembra essere in qualche modo arrabbiata con noi.