C’è una vecchia canzone di Lucio Dalla che si intitola “Il Colonnello” e dice così:
“Brava gente di età
Oggi la plebaglia
Sempre più canaglia si fa
Ma finalmente verrà
Uno che al paese
Le fondamenta farà
La barca sarà ripulita
Da scioperi e dolce vita
Sarò con lui
Quel giorno, sai
L’elenco ce l’ho
I disfattisti, i comunisti e i pederasti”
E la candidatura alle elezioni europee del generale Vannacci questo mi ricorda in primo luogo, aggiungendo alla lista anche i negri con la erre, i disabili, i giovani che si fanno manganellare e altri evirati. Ma c’è anche un’altra riflessione, forse più seria, che bisognerebbe fare sulla divisa e il suo posto nella società. Lo stato moderno europeo nasce quando l’esercizio della forza viene sottratto al singolo individuo e assegnato al sovrano che lo esercita attraverso le forze armate e di polizia. È il famoso Leviatano di Hobbes che toglie l’uomo dalla brutalità dello stato di natura e lo affida alla garanzia delle leggi. Le forze armate e di polizia hanno il compito di garantirne il rispetto, assieme alla libertà e all’indipendenza dello stato. Ma questo monopolio della violenza è sempre ambiguo ed esposto al pericolo della sopraffazione. Lo avevano già capito i romani che imponevano agli eserciti di restare ad una distanza di sicurezza dall’Urbe.
Nei nostri paesi dunque i militari stanno nelle caserme e ne escono solo in occasioni ben precise e delimitate. Tranne in caso di conflitto armato, quando lo stato vara quella che si chiama appunto legge marziale per consentire alle forze armate di assumere legalmente il controllo del territorio. Ma tutto questo non basta ad instaurare un rapporto di assoluta parità fra chi indossa un’uniforme e il semplice cittadino. La storia contemporanea è piena di esempi di militari usciti dalle caserme per prendere il potere. Non c’è paese dell’America Latina che non sia passato da qualche golpe militare, assieme alla Spagna franchista, al Portogallo di Salazar, alla Turchia post-kemalista e alla Grecia dei colonnelli, per venire più vicini a noi.
Delle divise abbiamo bisogno, sono lo strumento indispensabile alla difesa dello stato di diritto e dell’integrità territoriale di una nazione, come si dice oggi. Ma la divisa resta comunque infida, sospetta, se ne ha giustamente paura perché su di essa incombe sempre una grande contraddizione. In fin dei conti non possiamo dimenticare che chi decide di indossarla sceglie un mestiere che ha come fine estremo l’uccisione di un uomo, di fatto un mestiere votato alla morte. Non possiamo non chiederci cosa spinga un individuo a scegliere il mestiere delle armi. Nelle pubblicità delle forze armate vediamo militari che pilotano aerei, elicotteri e navi e ci diciamo allora sarà quello che gli piace fare ma no, sotto, sotto lo sappiamo che alla fine c’è una mitraglia che spara e uccide. Lo apprezziamo il soldato, lo stimiamo, ne siamo perfino fieri alle parate ma non possiamo non vedere l’ombra nera che lo sovrasta.
Abbiamo un bel celebrarli e festeggiarli i nostri militari ma quando loro si muovono è perché c’è qualcuno da uccidere e poco cambia che siano mobilitati nelle cosiddette guerre giuste, concetto più mai che fumoso, che comunque guerre sono e uccidono della gente. Questioni senza sbocco razionale che ci tocca di lasciare in sospeso sperando di non dover mai porcele.
Per questo è sempre un brutto segno quando una divisa esce dalla caserma, perché porta nel mondo civile pensieri e atteggiamenti che appartengono al mondo della violenza dove non è mai netto il confine fra il giusto e lo sbagliato, dove c’è sempre un’arma da qualche parte. Un paese che ha bisogno di generali è un paese in guerra, forse con sé stesso.