Il doppio incarico che la presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen ha affidato a due italiani, Mario Draghi sul tema della competitività e della autonomia strategica, ed Enrico Letta sul tema del mercato unico, rappresenta un’importante occasione perché finalmente si apra in Europa una seria riflessione e un vero dibattito sul futuro dell’Unione e su ciò che non ha funzionato negli ultimi 20 anni.
Il differenziale di crescita e di sviluppo – in negativo – rispetto alle altre grandi aree economiche del mondo ma in particolare nei confronti degli USA è impressionante, così come è impressionante il ritardo dell’Europa in termini di innovazione tecnologica e di importanza delle imprese, che poi della crescita e dello sviluppo sono protagoniste: tra le prime 10 imprese del mondo non ce n’è neppure una europea.
Draghi consegnerà il suo rapporto solo dopo le elezioni europee di giugno, ma ha già fornito qualche assaggio e qualche prima indicazione nel suo recente discorso a La Hulpe (Bruxelles). Enrico Letta invece ha depositato un corposo rapporto di 147 pagine dal significativo titolo “Much more than a market” (Molto più che un mercato). Finora del documento di Letta, così come del discorso di Draghi con le sue anticipazioni, si è occupata soprattutto la stampa italiana. A livello europeo registriamo ad oggi una certa disattenzione e ciò indica come non sarà facile aprire in Europa una discussione su questi temi.
Recupero di competitività e di autonomia strategica e difesa e potenziamento del mercato unico implicano scelte politiche di fondo, ed in particolare un radicale cambiamento della governance dell’Unione. Se il processo decisionale resta quello attuale, supercomplesso, con diritto di veto anche del più piccolo dei Paesi dell’Unione e con un eccesso di burocratismo regolatorio, sarà assai difficile attuare i cambiamenti profondi di cui parlano Draghi e Letta.
Le questioni della competitività e dell’autonomia strategica e quella del mercato unico sono strettamente legate.
Ridare competitività al sistema industriale europeo significa, tra l’altro, fare enormi investimenti in innovazione e nelle transizioni energetica e digitale che finora sono stati attuati in misura molto inferiore rispetto ai nostri competitors mondiali. La realizzazione di questi investimenti implica necessariamente l’intervento di risorse pubbliche, perché i privati da soli non ce la fanno. Questi indispensabili interventi di finanza pubblica non possono essere lasciati ai singoli Stati attraverso lo strumento degli aiuti di stato, pena la creazione di gravi asimmetrie competitive: in questa ipotesi gli Stati più forti dal punto di vista economico e di bilancio daranno molto di più alle loro imprese di quanto saranno capaci di fare gli Stati più deboli, con ciò creando gravi squilibri e differenze nella capacità delle imprese nell’affrontare le sfide dell’oggi.
È ciò che si è verificato nel biennio 2021-2022, grazie anche all’allentamento delle regole sugli aiuti di stato conseguenza della pandemia: su più di 760 miliardi di euro di aiuti alle imprese industriali notificati alla Commissione dagli Stati membri, e da questa autorizzati, più del 53% è finito alle imprese tedesche, il 27% circa alle imprese francesi e solo il 6,5% alle imprese italiane.
Ecco il legame tra competitività e mercato unico.
Ma evitare asimmetrie competitive capaci di mettere in crisi il mercato unico significa limitare le possibilità di intervento dei singoli Stati a favore delle loro imprese. Accetteranno questa limitazione i singoli Stati, specie quelli più grandi e economicamente forti?
Ovviamente la soluzione sono fondi europei e non nazionali, finanziati probabilmente a debito, a disposizione di tutte le imprese europee che si trovano nelle stesse condizioni e non solo di quelle dei Paesi più forti.
E i Paesi nordici accetteranno un debito comune fatto per sostenere imprese di altre nazioni, dal momento che dalle loro parti le imprese industriali scarseggiano? C’è il serio rischio che i conflitti di interesse tutti interni all’Unione e spesso silenziati dalla retorica europeista tornino a riproporsi.
Il tema dei conflitti di interesse ci porta all’altro tema, ad esso collegato, delle norme a tutela della concorrenza. Al riguardo Draghi ha giustamente detto che per troppi anni l’Europa ha sbagliato prospettiva.
“Ci siamo rivolti verso l’interno, vedendo i nostri concorrenti tra di noi, anche in settori come la difesa e l’energia in cui abbiamo profondi interessi comuni. Allo stesso tempo non abbiamo guardato abbastanza verso l’esterno… non abbiamo prestato sufficiente attenzione alla nostra competitività all’estero come una serie questione politica… Abbiamo confidato nella parità delle condizioni globali e nell’ordine internazionale basato su regole aspettandoci che gli altri facessero lo stesso. Ma ora il mondo sta cambiando e ci ha colto di sorpresa. Altre regioni non rispettano più le regole e stanno elaborando attivamente politiche per migliorare la loro posizione competitiva. Nel peggiore dei casi tali interventi sono progettati per renderci permanentemente dipendenti. La Cina ad esempio mira a catturare e internalizzare tutte le parti della catena di approvvigionamento di tecnologie verdi. Questa rapida espansione dell’offerta sta portando a un significativo eccesso di capacità in molteplici settori minacciando di indebolire le nostre industrie…”.
La riflessione di Draghi porta alla dimensione delle aziende, alle economie di scala realizzabili o non realizzabili in Europa alla ricerca della migliore efficienza, ai loro mercati di riferimento.
Fino ad oggi l’occhio della Commissione Europea si è concentrato esclusivamente sulla dimensione della quota di mercato dell’impresa europea con la famosa regola, fatta valere in moltissimi casi, del limite del 40%. Quando un’impresa dell’UE supera su un singolo prodotto il 40% della quota di mercato europeo deve fermare la sua crescita e dismettere quanto eccede il 40%.
Anche per questa ragione non ci sono imprese europee tra le più grandi del mondo. La Commissione di fatto ha impedito la crescita dimensionale concependo regole di concorrenza limitata al solo teatro interno. È quello che Draghi, con un certo understatement, ha richiamato dicendo “ci siamo guardati solo all’interno”.
Ogni volta che si sono sollevate da parte delle imprese obiezioni a questo approccio, con l’argomentazione che l’arena della competizione era mondiale, e quello doveva essere il mercato preso in considerazione dalla Commissione, si è alzato un muro e la burocrazia guardiana ha applicato senza se e senza ma la regola del 40%.
Così come è avvenuto in tantissimi altri ambiti, in cui bisogna ricostruire le condizioni di competitività, la preoccupazione della tutela dei consumatori ha fatto ideologicamente premio sulla tutela delle imprese. Ma senza imprese, come abbiamo detto tante volte, non ci saranno più neanche i consumatori.
Riuscire a cambiare la prospettiva e a tener conto dei reali mercati di riferimento globali e non solo del cortile di casa sarebbe davvero una rivoluzione.
Vedremo nelle prossime settimane e mesi se su questi temi rilevantissimi per il futuro dell’Unione e sulla sua capacità di reggere la sfida con USA, Cina e in prospettiva India ci sarà una presa di coscienza e una vera voglia di cambiare.
La campagna politica per il rinnovo del Parlamento Europeo dovrebbe concentrarsi soprattutto su questo. La disattenzione a livello internazionale europeo che fino ad ora ha circondato il lavoro di Draghi e di Letta non lascia ben sperare, ma sta anche a noi lavorare affinché questa percezione cambi. È interesse dell’Italia e delle imprese italiane.
*Antonio Gozzi è advisor del presidente di Confindustria per ,’autonomia strategia europea, il Piano Mattei e la competitività.
Questo intervento è stato pubblicato originariamente su PiazzaLevante.