In questi tempi di elezioni può essere d’ispirazione la lettura di un piccolo saggio di Simone Weil del 1950 dal titolo “Note sur la suppression générale des partis politiques” nell’edizione inglese pubblicata dalla New York Review of Books, con una postfazione di Czeslaw Milosz e un commento del pensatore e scrittore belga Simon Leys, traduttore dell’opera. Gli scritti di questi due autori contribuiscono a situare questo libretto di Simone Weil nel contesto politico del tempo in cui fu scritto e a sottolinearne la sorprendente attualità.
I partiti politici sono molti cambiati dal tempo in cui Simone Weil scriveva queste pagine. Si può anzi dire che i tradizionali partiti politici europei come li abbiamo conosciuti si stanno dissolvendo o hanno sempre più la struttura di semplici movimenti. Ma anche nella loro nuova conformazione conservano le caratteristiche che per Simone Weil giustificano la loro soppressione.
Simone Weil definisce i partiti come fomentatori di passioni collettive per i quali il perseguimento di un bene comune o interesse generale è assolutamente fittizio. “La passione collettiva è un’impulso infinitamente più potente del crimine e della menzogna rispetto alla passione individuale”. E questo deriva dalla stessa natura dei partiti che Weil fa risalire non tanto alla Rivoluzione francese, quanto alla Chiesa cattolica nella sua lotta contro le eresie, dove quel che contava non era tanto la verità ma la conformità alla dottrina. Così i partiti sono diventati tante piccole chiese, con i loro officianti e la loro gerarchia, dove chi non si attiene alla linea viene scomunicato con l’espulsione o la marginalizzazione. Questo secondo Simone Weil è il meccanismo che uccide il libero pensiero dell’uomo politico che una volta entrato in un partito si esprimerà sempre come suo membro, “in quanto cattolico” o “in quanto socialista”, mai nella libertà del suo personale modo di intendere le cose e di perseguire il bene. I nostri politici si schierano contro o a favore di un’idea senza valutarla in sè e per sè ma sempre secondo i dettami del loro partito.
Simone Weil individua tre caratteristiche essenziali di un partito politico:
1. Un partito politico è una macchina intesa a generare passioni collettive;
2. Un partito politico è un’organizzazione concepita per esercitare una pressione collettiva sui suoi membri;
3. Il primo e principale obiettivo di ogni partito politico è la sua crescita senza limiti.
E queste tre caratteristiche secondo la filosofa francese fanno di ogni partito politico una costruzione totalitaria. Nessun partito è mai capace di esprimere chiaramente il suo progetto politico, la sua eventuale dottrina. Ognuno sfugge a questa che sarebbe la prima legittimazione di un partito. L’unico, vero obiettivo, la ragion d’essere di un partito è il partito stesso, la sua esistenza, la sua durata. Nessun partito si lamenterà mai di ricevere troppi voti, di avere troppi membri o troppi soldi.
È impossibile per un individuo fare politica al di fuori dei partiti politici e questo fatto azzoppa la democrazia sul nascere. Nessun politico affronta un determinato problema dall’esclusivo punto di vista dell’interesse generale, ma sempre nell’ottica dell’interesse del suo partito. Così l’uomo politico finisce sempre per perseguire non tanto l’interesse comune ma l’interesse comune più qualcos’altro, cioè la conformità con le idee e gli interessi della sua parte. Questo processo porta a un generalizzato conformismo, cioè a un livellamento dello spirito critico dell’individuo in nome di un’appartenenza al partito lo rende incapace di libero pensiero. E questa rinuncia al pensiero individuale dilaga dai partiti a tutta la società.
Secondo Simone Weil, la cristallizzazione artificiale dei partiti politici fa sì che spesso le genuine affinità dei suoi membri non coincidano affatto, al punto che un parlamentare può trovarsi in disaccordo con un suo compagno di partito e d’accordo con un parlamentare dell’altra parte. Come accadeva fra comunisti e nazisti nella Germania del 1932, ci ricorda con un monito.
Non si può capire il pensiero di Simone Weil se non si conosce il suo percorso intellettuale e la sua scelta di vita mistica che la portò a professare la fede cattolica senza però mai voler essere battezzata, per essere libera dalla Chiesa. Il suo pensiero è senz’altro rigido e intransigente ma ci fa riflettere sulla vitalità e la praticabilità delle nostre democrazie.
Quest’anno, ci piace dire, quasi la metà del mondo voterà. Ma quanto senso hanno molte di queste elezioni? Che democrazie rappresentano? Quanto davvero l’elettore può scegliere, senza andare in India, anche nelle nostre limpidissime elezioni, nazionali ed europee? E quanto i parlamentari che porteremo a Strasburgo e a Bruxelles avranno a mente l’interesse comune europeo o non invece la scena politica dei loro paesi?
Per Simone Weil la società è succube della necessità e questo la allontana dal bene. “La distanza fra la necessità e il bene è la stessa che esiste fra la creatura e il suo creatore”, scriveva. È forse questo suo scetticismo a portarla sulla via del misticismo e a non vedere altra salvezza se non nella trascendenza.
Czeslaw Milosz nella sua postfazione al libro scrive che la posizione politica di Simone Weil è riassunta in una metafora che usava spesso, presa da Platone: Platone paragona la società a un grosso animale. Ogni cittadino ha un rapporto con quell’animale, con il risultato che quando gli viene chiesto cosa è il bene, ogni individuo risponde in conformità della sua funzione: per l’uno il bene consiste nel pettinare il pelo del grosso animale, per un altro nel grattargli la schiena, per un terzo nel pulirgli le unghie. E così l’uomo perde ogni possibilità di conoscere il vero bene.
Il giudizio di Simone Weil su partiti e società è forse feroce, frutto dei tempi che lo hanno ispirato. Ma deve metterci in guardia contro le derive che stanno trascinando le nostre democrazie lontano dai loro valori fondamentali.