Bruxelles – Una maggioranza schiacciante, che avvicina sempre di più il Kosovo verso l’ingresso nel Consiglio d’Europa. Con 131 voti a favore, 29 contrari e 11 astensioni, l’Assemblea parlamentare dell’organizzazione internazionale con sede a Strasburgo (che non è tra le istituzioni dell’Unione Europea) ha dato il via libera ieri (16 aprile) alla raccomandazione della relatrice greca Dora Bakoyannis che sottolinea come l’adesione di Pristina porterebbe al “rafforzamento degli standard dei diritti umani garantendo l’accesso alla Corte europea dei diritti umani a tutti coloro che sono sotto la giurisdizione del Kosovo”.
Un voto che non mette in dubbio l’orientamento dell’Assemblea parlamentare in vista della decisione finale del Comitato dei Ministri (l’organo esecutivo dell’organizzazione composto dai ministri degli Esteri dei 46 Paesi membri) prevista nel mese di maggio, ma che fornisce alcune indicazioni interessanti sull’approccio di diversi Paesi membri anche dell’Unione Europea alla questione dell’indipendenza del Kosovo dalla Serbia e della sua possibile adesione alle organizzazioni internazionali (secondo quanto previsto dall’accordo di Bruxelles del 27 febbraio 2023). Tra i cinque Paesi membri Ue che non riconoscono la sovranità di Pristina, Cipro e Spagna mostrano ancora una dura opposizione (rispettivamente due delegati su due, e otto su nove contrari), Romania e Grecia sono le più aperturiste (due su due, e quattro su cinque a favore), mentre la Slovacchia non ha partecipato al voto. Da rilevare anche il voto contrario di tutti e quattro i membri ungheresi, a dimostrazione del sostegno incondizionato di Budapest a Belgrado (proprio il premier ungherese, Viktor Orbán, è il più stretto alleato del presidente serbo, Aleksandar Vučić, all’interno dell’Unione).
“La voce degli europei è stata ascoltata“, ha esultato la presidente kosovara, Vjosa Osmani, commentando il “nuovo passo avanti” verso il primo ingresso del suo Paese in un’organizzazione internazionale dalla dichiarazione di indipendenza nel 2008. Così come rilevato poche settimane fa in occasione del parere positivo della Commissione per gli affari politici e la democrazia dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, l’adesione del Kosovo come 47esimo Paese membro sarebbe “il culmine di un dialogo che si è sviluppato nell’arco di due decenni“, anche se “non dovrebbe in alcun modo essere vista come la fine di un processo”. Al contrario dovrebbe “catalizzare lo slancio per continuare a fare progressi nel rafforzamento dei diritti umani, della democrazia e dello Stato di diritto”. Di particolare rilevanza è anche il modo in cui si potrebbe aiutare il Paese balcanico ad “affrontare le sfide e le questioni in sospeso”, in particolare per quanto riguarda l’Associazione delle municipalità a maggioranza serba in Kosovo (a cui dovrebbe essere garantita autonomia su tutta una serie di materie amministrative): “Dovrebbe figurare nel futuro esame da parte del Comitato dei Ministri della domanda di adesione del Kosovo al Consiglio d’Europa, come impegno post-adesione”.
A proposito di Kosovo e Serbia, vale la pena ricordare che le massime autorità politiche a Belgrado hanno minacciato che un ingresso del Kosovo nel Consiglio d’Europa potrebbe implicare un’uscita della Serbia. Un ricatto che, ancora una volta, è in violazione del punto 4 dell’accordo di Bruxelles sulla normalizzazione delle relazioni tra i due Paesi: “La Serbia non si opporrà all’adesione del Kosovo a nessuna organizzazione internazionale“. Ma in ogni caso, secondo l’articolo 4 dello Statuto, “ogni Stato europeo che sia ritenuto in grado e disposto ad adempiere alle disposizioni dell’articolo 3 [accettare i principi dello Stato di diritto e del godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali, ndr] può essere invitato a diventare membro del Consiglio d’Europa dal Comitato dei Ministri”. Tutti i sette delegati serbi si sono opposti alla raccomandazione votata ieri all’Assemblea parlamentare, ma senza più la Federazione Russa – espulsa/uscita dall’organizzazione dopo la decisione del Comitato dei Ministri del 16 marzo 2022 per l’invasione dell’Ucraina – Belgrado ha perso un potente alleato al Consiglio d’Europa per continuare a tenere in stallo la questione dell’adesione di Pristina.
Le tensioni tra Kosovo e Serbia
Il primo evento che ha aperto uno degli anni più difficili e violenti per le relazioni tra Serbia e Kosovo è andato in scena il 26 maggio 2023. A causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica sono scoppiate violentissime proteste, trasformatesi il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato. La tensione è deflagrata per la decisione del governo di Albin Kurti di far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti il 23 aprile, in una tornata elettorale controversa per la bassissima affluenza al voto.
Nel frattempo il 14 giugno è andato in scena un arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi, per cui i governi di Pristina e Belgrado si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine. Bruxelles ha convocato una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per uscire dalla “modalità gestione della crisi” e solo il 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari. Ma a causa del mancato “atteggiamento costruttivo” da parte di Pristina per la de-escalation della tensione, Bruxelles ha imposto a fine giugno misure “temporanee e reversibili” contro il Kosovo (ancora in atto, nonostante la tabella di marcia concordata il 12 luglio). La situazione è però degenerata con l’attacco terroristico del 24 settembre nei pressi del monastero serbo-ortodosso di Banjska. Nella giornata di scontri tra la Polizia del Kosovo e un gruppo di una trentina di uomini armati sono rimasti uccisi un poliziotto e tre attentatori.
Gli sviluppi dell’attentato hanno evidenziato chiare diramazioni nella vicina Serbia. Tra gli attentatori all’esterno del monastero c’era anche Milan Radoičić, vice-capo di Lista Srpska – come confermato da lui stesso qualche giorno dopo l’attacco armato – oltre a Milorad Jevtić, stretto collaboratore del figlio del presidente serbo, Danilo Vučić. A peggiorare il quadro un “grande dispiegamento militare” serbo lungo il confine amministrativo denunciato dagli Stati Uniti. La minaccia non si è concretizzata, ma l’Ue ha iniziato a riflettere sulla possibilità di imporre le stesse misure in vigore contro Pristina anche ai danni di Belgrado. Ma per il via libera serve l’unanimità in Consiglio e il più stretto alleato di Vučić dentro l’Unione – il premier ungherese, Viktor Orbán – ha posto il veto. Come se non bastasse, prima delle elezioni anticipate in Serbia il 17 dicembre, l’ultimo atto del governo guidato da Ana Brnabić è stato inviare una lettera a Bruxelles per avvertire che le istituzioni serbe non riconoscono il valore giuridico degli impegni verbali presi nel contesto del dialogo Pristina-Belgrado e che non sarà riconosciuta nemmeno de facto la sovranità del Kosovo.
L’unica notizia positiva al momento è la risoluzione della ‘battaglia delle targhe’ tra Serbia e Kosovo, grazie alla decisione arrivata tra fine 2023 e inizio 2024 sul mutuo riconoscimento per i veicoli in ingresso alla frontiera. Anche considerati i presupposti non promettenti su cui si sta impostando il nuovo anno. Con l’entrata in vigore del Regolamento sulla trasparenza e stabilità dei flussi finanziari e sulla lotta al riciclaggio di denaro e alla contraffazione, dal primo febbraio l’euro è diventato l’unica valuta di cambio e di deposito nei conti bancari: il dinaro serbo può ancora essere scambiato al pari del lek albanese o del dollaro, ma la decisione avrà un impatto su tutti quei servizi pubblici che non si mai adeguati all’adozione dell’euro da parte di Pristina nel 2002 (ancora prima dell’indipendenza). Il 5 febbraio hanno sollevato polemiche a Bruxelles le operazioni di polizia speciale presso gli uffici delle istituzioni temporanee gestite dalla Serbia in quattro comuni del nord del Kosovo (Dragash, Pejë, Istog e Klinë) e presso la sede dell’Ong Center For Peace and Tolerance a Pristina: dal 2008 Belgrado ha continuato a finanziare comuni, aziende, imprese pubbliche, asili, scuole, università pubbliche e ospedali a disposizione della minoranza serba, in modo illegale secondo la Costituzione del Kosovo.
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