Bruxelles – Non si sblocca lo stallo tra i Paesi membri sull’approvazione finale della prima legge Ue per il ripristino della natura. Il regolamento che pone l’ambizioso obiettivo di riportare almeno il 20 per cento delle terre e dei mari europei allo stato originale entro il decennio è una delle colonne portanti del Green Deal ed è diventata anche una delle sue spine nel fianco. Ogni passaggio dell’iter legislativo è stato accompagnato da un forte innalzamento dei toni e dell’attenzione mediatica, ed è stato sudato sempre con maggioranze risicate.
La legge è ora a pochi passi dal traguardo, dopo l’accordo interistituzionale di novembre, il via libera dei rappresentanti permanenti degli Stati Ue e l’approvazione formale del testo finale da parte dell’Eurocamera il 26 febbraio. Che ha di fatto chiuso i giochi su eventuali ulteriori correzioni del regolamento.
Ma l’ultimo step è l’approvazione formale dei ministri dei 27, da ottenere attraverso una maggioranza qualificata di 15 Stati membri che rappresentino almeno il 65 per cento della popolazione europea. E qui si sta consumando la pugnalata finale da parte dei governi nazionali: Svezia, Italia e Paesi bassi continuano a opporsi strenuamente alla legge, mentre Finlandia, Polonia, Belgio, Austria e Ungheria si astengono. È stata sufficiente l’ultima improvvisa chiamata fuori di Budapest per rimettere tutto in discussione. Oggi (25 marzo) la presidenza belga del Consiglio dell’Ue ha aggiunto alle varie ed eventuali della riunione dei ministri dell’Ambiente Ue un aggiornamento sul dossier, per sondare le chance di un tentativo disperato di approvazione prima della fine della legislatura.
Ma gli Stati che non approvano gli obiettivi previsti dalla legge sono fermi sulle loro posizioni. Per Vannia Gava, vice ministra dell’Ambiente e della Sicurezza energetica italiana, l’accordo finale “non è soddisfacente” per l’Italia. Perché va “tutelato il settore agricolo” e “non si possono accettare ulteriori oneri e carichi amministrativi“. Gava ha esortato i colleghi a “prendersi il tempo di fare ulteriori riflessioni”, con l’unico problema che di tempo ce n’è poco. E che il testo non può essere più modificato, salvo un colpo di mano senza precedenti nei confronti dei colegislatori del Parlamento europeo.
L’unica via percorribile per la presidenza belga – e per il commissario Ue per l’Ambiente, Virginijus Sinkevicius, che da oltre due anni lavora alla legge – è provare a convincere i governi reticenti che il compromesso finale affronta già tutte le preoccupazioni sollevate dai Paesi Ue. A partire da Budapest. La ministra ungherese per gli Affari ambientali Anikó Raisz, ne fa una questione di “sussidiarietà e sovranità” nazionale. “In Ungheria già oggi circa un terzo del territorio è in stato di protezione della natura. A livello nazionale è possibile fare tutto ciò che è necessario”, ha affermato al Consiglio. Oltre a “preoccupazioni legati al costi dell’attuazione”.
Il commissario europeo è su tutte le furie: “Non posso evitare di esprimere il mio profondo rammarico. L’attuale situazione di stallo solleva seri interrogativi sulla coerenza e la stabilità del processo decisionale dell’Ue“, ha dichiarato durante la conferenza stampa a margine della riunione. Perché – in particolare sui file del Green Deal – gli attentati degli Stati membri ai file già approvati nei negoziati stanno diventando la prassi. Ma non solo: Sinkevicius ha avvertito che l’affossamento della Nature Restoration law “mette in gioco la reputazione internazionale dell’Ue“. Che dopo aver svolto il ruolo di leader nei consessi internazionali, rischia di andare alla Cop16 che si terrà in Colombia il prossimo autunno “a mani vuote”.
Sinkevicius ha inoltre sottolineato che l’accordo è già frutto di compromessi con i governi nazionali, un accordo “molto equilibrato” che “concede la flessibilità che gli Stati membri hanno chiesto e include un approccio graduale” all’adempimento degli obiettivi. Ad esempio, date le preoccupazioni di entrambi i co-legislatori sugli effetti della normativa sulla sicurezza alimentare, l’accordo finale ha previsto un ‘freno di emergenza’, fissando al 2033 la data per la Commissione per rivedere e valutare l’applicazione del regolamento e il suo impatto sui settori agricolo, della pesca e forestale, nonché i suoi effetti socioeconomici più ampi. E ha introdotto la possibilità di sospendere l’attuazione delle disposizioni del regolamento relative agli ecosistemi agricoli fino a un anno tramite un atto di esecuzione, in caso di “eventi imprevedibili ed eccezionali fuori dal controllo dell’Ue e con gravi conseguenze a livello comunitario per la sicurezza alimentare”.
In difficoltà e nella scomoda situazione di dover provare a finalizzare un file che il proprio governo non supporta, la presidenza belga ha dovuto prendere atto che “in questo momento non abbiamo abbastanza sostegno per confermare il testo”. Ma – attraverso le parole di Alain Maron, Ministro del Governo della Regione di Bruxelles-Capitale, responsabile per il Clima, l’Ambiente, l’Energia e la Democrazia partecipativa del Belgio – assicura che “questa non è certo la fine della storia”. Maron ha dichiarato che “la presidenza lavorerà duramente nelle prossime settimane per trovare possibili vie d’uscita da questa situazione di stallo e rimettere il dossier all’ordine del giorno per l’adozione in un altro Consiglio“. Perché dopo tutto “non siamo lontani dalla maggioranza qualificata”. No, manca solo una capitale. Che sia Roma o Budapest. O perché no, Bruxelles.