Più passano i giorni più molte certezze che sembravano essersi consolidate nel corso degli ultimi mesi cominciano a mostrare delle crepe. Le prossime elezioni europee, e tutti i rinnovi dei vertici istituzionali che ne conseguiranno, saranno una fase molto più incerta di quanto i bene informati (Bruxelles, come tutti i ‘luoghi della politica’ nel mondo, almeno quello democratico, vive di queste previsioni), già sei mesi fa, davano per scontata la conferma di Ursula von der Leyen alla guida dell’Esecutivo europeo.
Era un’aspettativa condivisa anche da me, devo dire la verità. Perché è stata una brava presidente (in una scala secca tra brava, inesistente e cattiva) perché la composizione del Consiglio europeo è quella che è, e tocca ai suoi membri indicare il candidato al Parlamento, perché il risultato delle elezioni europee non presenterà grandi sorprese nei grandi numeri, perché non ci sono all’orizzonte altri candidati politici credibili. Ma anche perché si è candidata per tempo, almeno così noi scrivemmo dopo il suo discorso sullo Stato dell’Unione del 13 settembre scorso, che era chiaramente un intervento programmatico per il prossimo quinquennio, che lei voleva guidare.
Sei mesi dopo, nonostante la candidatura votata fiaccamente dal suo partito, il Ppe, a Bucarest, ma pur votata; nonostante che i socialisti europei abbiano fatto un lavoro di scavo per trovare il candidato meno conosciuto a livello continentale che avevano a disposizione e che viene anche da un Paese di mezzo milione di abitanti, il Lussemburgo, e dunque non può neanche, dove è conosciuto, smuove alcunché a livello elettorale che abbia una risonanza europea; nonostante che i liberali abbiano tre candidati, cioè nessuno, ed i verdi ne abbiano due, per una strana tradizione di parità di genere; nonostante tutto questo, dal giorno dell’elezione a Bucarest, il 7 marzo, sempre più bene informati sciorinano dubbi e alcuni anche nomi alternativi a von der Leyen. Nomi che naturalmente non sono tra i candidati ufficiali.
E però von der Leyen candidata e presidente non è in una posizione facile. Anche perché la candidata ha deciso di sostenere un programma che va contro tutto quel che ha fatto la presidente. Qualsiasi cosa dica sul futuro basandosi sul programma del Ppe si scontrerà su quel che ha fatto la Commissione in questi cinque anni. Si candida contro la sua storia, in sostanza, basta guardare le giravolte su agricoltura e migranti. E sarà facilmente attaccabile dagli altri candidati e partiti, perché comunque in campagna elettorale si sta, ed ognuno, giustamente, vuole tirare dalla propria parte.
Saranno mesi molto difficili dunque, che proseguiranno probabilmente anche dopo le elezioni, perché avremo un Consiglio ed un Parlamento con maggioranze molto diverse (ad esempio i socialisti non saranno ridotti al lumicino tra i deputati come lo sono tra i capi di governo). Ci vorrebbero leader forti per guidare un periodo difficile, perché sarà difficile la gestione della resistenza alla Russia e sarà difficile la vita in un Consiglio ed in un Parlamento dove, seppur decisamente minoritarie, le forze euroscettiche e sovraniste saranno più forti di oggi.
Ci vorrebbe un momento di riflessione, di analisi, per capire come rimettere in piedi un progetto ed un consenso che, se è vero che nei momenti di crisi è stato capace di reagire oltre ogni aspettativa, fatica a strutturarsi solidamente per affrontare un futuro complesso. Basti pensare a come potrà essere gestibile, con gli strumenti di governo oggi a disposizione, un’Unione a 35 membri, quando, già ora, la necessità di mediare con l’Ungheria per togliere il suo veto al fondo speciale per l’Ucraina ha portato ad un Parlamento che cita la Commissione in Corte di Giustizia per aver elargito soldi a Budapest con troppa facilità. Non si può rischiare la rissa continua, ci vuole una guida forte, nelle istituzioni e nei governi.
Nei governi siamo messi male, grandi personalità non ci sono, il rapporto forte, necessario a tutti, tra Francia e Germania è ai minimi storici, il governo tedesco poi è in sostanza nelle mani di un partito liberale che va verso l’azzeramento nei sondaggi ed annaspa irrigidendosi sulla scia dei cosiddetti “falchi” della sobrietà nordica ed impedendo di fatto al governo di governare.
Tornando al tema iniziale, se non von der Leyen chi? E qui si conferma il problemone, perché al momento nomi alternativi non ce ne sono, nel senso che non si vedono personalità in grado di insidiare la sua candidatura. Certo, c’è l’eterno nome di Mario Draghi che aleggia, che trova qualche simpatia politica un po’ ovunque, ma il suo problema è che non ha un partito. Per la corsa alla Commissione sarebbe davvero un’ultima risorsa (absit iniuria verbis), sarebbe l’uomo che salva tutti da una situazione senza altre vie d’uscita, sempre che si riesca a convincere il governo italiano a firmare la sua candidatura. Perché senza il via libera di Giorgia Meloni, la leader dell’unico partito che fece opposizione al governo Draghi, non se ne può far nulla. Il presidente è pur sempre il commissario designato da un Paese, non possono essere altri a scegliere per Roma. Al Consiglio le cose sono un po’ diverse, lì sono i governi a scegliere tra i colleghi ex primi ministri e forse lì, messa di fronte ad un’ampia volontà tra i colleghi, Meloni potrebbe anche cedere, e non sarebbe male per lei farlo. Ma anche qui: che partito politico rappresenta Draghi? Che equilibri garantirebbe sul delicato bilancino degli incarichi europei?
Forse potrebbe bastare un momento di ragionevolezza, dopo gli eccessi elettorali potrebbe essere possibile. Un momento in cui si mettono in secondo i problemi degli agricoltori e ci si concentra sulla sopravvivenza dell’Unione, che è poi la sopravvivenza dei singoli stati (e anche degli agricoltori). Un momento in cui si lavora seriamente a potenziare l’Europa della difesa, perché Trump o non Trump gli Usa ce lo stanno chiedendo da tempo, si completano le norme dell’Unione bancaria, si mette sul tavolo un serio lavoro di preparazione alla riforma del funzionamento dell’Unione, si trova una maniera di gestire la mancanza di offerta di lavoro e dunque le migrazioni, si continua a a definire una politica industriale per l’Ue che abbia un senso per tutti.
Certo, è un programma enorme, ma di fatto indispensabile. Se Draghi potesse essere la risposta ben venga, e l’Italia farebbe un figurone a sostenerlo, ma non sarebbe la risposta definitiva, nel prossimi cinque anni l’europa del futuro va costruita.