dall’inviato a Strasburgo – Mentre l’attenzione della stampa questa settimana era tutta rivolta alle numerose votazioni definitive del Parlamento Europeo su diverse nuove legislazioni Ue, nella sala stampa di Strasburgo – che porta il nome di una delle martiri europee per la libertà di espressione, Daphne Caruana Galizia – è andato in scena un episodio disdicevole per contenuto, veemenza e gratuità delle accuse da parte di uno dei vertici della Commissione Europea sul tema migrazione.
“Dal momento in cui è interessata alla politica, mi lasci sottolineare a chi non piace l’accordo sul Patto migrazione e asilo“, sono state le parole del vicepresidente dell’esecutivo Ue per lo Stile di vita europeo, Margaritis Schinas, rispondendo alla domanda di una giornalista nel corso della conferenza stampa di martedì pomeriggio (12 marzo) sulla comunicazione relativa alla gestione della migrazione e l’asilo: “Quelli a cui non piace il Patto sono gli amici di Putin, l’estrema destra e l’estrema sinistra, che lo stanno prendendo di mira“. Ci sono diversi livelli di possibile analisi di questo attacco – come quello già presentato da Eunews sullo slittamento della narrazione sulla migrazione da parte della presidente della Commissione Ue, Ursula Von der Leyen, verso una logica securitaria – ma ciò che è davvero più preoccupante è la scelta dei riferimenti di ‘negatività’ di Schinas. Bollare i critici del Patto migrazione e asilo in via di approvazione definitiva come “amici di Putin” – un dittatore responsabile dell’invasione di un Paese sovrano e ricercato dalla Corte Penale Internazionale – è un atto di violenza verbale ai limiti della censura. Anche perché non si vede davvero alcuna correlazione logica tra un posizionamento pro-Putin e il sostegno a politiche che mettono al centro i diritti delle persone migranti in arrivo.
In questo senso va ricordato con forza che “quelli a cui non piace il Patto” non sono solo “l’estrema destra e l’estrema sinistra”. Ma c’è un mondo di organizzazioni della società civile, di avvocati per i diritti umani, di giornalisti investigativi, di accademici e di operatori umanitari sul campo che da tempo criticano le implicazioni della messa a terra del Patto migrazione e asilo con cognizione di causa e avendone studiato a fondo i testi. Definirli “amici di Putin” per screditarne le critiche su contenuto e futura implementazione è una modalità non solo discutibile, ma anche pericolosa per le implicazioni di criminalizzazione dell’opposizione: se tutto ciò che si oppone al “supporto di tre quarti delle forze politiche rappresentate in questo Parlamento” può essere bollato come essere “amico di Putin”, allora lo spazio di dissenso e di libertà di espressione si riduce drammaticamente. Perché nessuno (o quasi nessuno, perché di “amici di Putin” ce ne sono davvero anche all’Eurocamera) vorrebbe essere associato con un autocrate con le mani sporche del sangue di decine di migliaia di morti in Ucraina. Men che meno se allo stesso tempo si sta lavorando per la maggiore protezione dei diritti delle persone che arrivano alle frontiere dell’Unione, contestando il fatto che “quello che abbiamo creato è un testo pienamente compatibile con i valori dell’Unione Europea” (come rivendicato da Schinas).
E allora si può parlare anche di contenuto. Perché non bisogna essere “amici di Putin” per chiedersi come alcune nuove introduzioni del Patto migrazione e asilo siano davvero “pienamente compatibili” con i valori di dignità umana, uguaglianza e diritti umani su cui si fonda l’Unione. Per esempio che le procedure di frontiera previste dal Regolamento sulle procedure di asilo (Apr) prevedano una detenzione di fatto fino a sei mesi anche per i minori non accompagnati e per le famiglie con minori di 12 anni, senza la possibilità di accedere a una rappresentanza legale, ma solo a consulenza. O che più in generale il Regolamento screening permetta la detenzione per sette giorni di tutte le persone migranti in arrivo alle frontiere dell’Unione attraverso la cosiddetta ‘finzione del non ingresso’ (cioè che chiunque sia sottoposto allo screening in un centro apposito non sarà considerato legalmente nel territorio dello Stato membro e quindi dell’Ue). O ancora che il Regolamento Eurodac imponga di accettare la raccolta dei dati biometrici a tutte le persone beneficiarie di protezione temporanea a partire dai 6 anni di età, anche se per il Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr) il trattamento è lecito solo se il minore ha almeno 16 anni. E questi sono solo alcune delle criticità già emerse, senza nemmeno doversi inoltrare nel campo scivolosissimo del concetto di ‘Paese terzo sicuro’ per i rimpatri rapidi, su cui si stanno già aprendo scenari da ‘modello Rwanda’ britannico secondo il Manifesto del Partito Popolare Europeo. La stessa famiglia politica di von der Leyen e del greco Schinas.