Bruxelles – A una settimana dall’ultimo tentativo fallimentare, la presidenza belga del Consiglio dell’Ue è pronta a riproporre ai Paesi membri il piatto indigesto delle nuove norme in materia di sostenibilità aziendale. Con la speranza che le “importanti modifiche” apportate al testo “per venire incontro alle preoccupazioni di Stati e imprese” siano sufficienti per sbloccare l’accordo.
La questione della direttiva sulle due diligence è stata riaperta oggi dai ministri Ue al Consiglio competitività. Un aggiornamento sulle reazioni dei governi al compromesso presentato dal Belgio dopo che – nel mese di febbraio – l’accordo trovato a dicembre con l’Eurocamera è stato affossato ben due volte. “Abbiamo rivisto il campo di applicazione della direttiva”, ha spiegato in conferenza stampa il ministro dell’Economia e dell’innovazione del governo delle Fiandre, Jo Brouns, a nome della presidenza del Consiglio dell’Ue. Il ministro ha annunciato l’intenzione di sottoporre la questione già domani ai rappresentanti permanenti dei 27. Ma, a quanto si apprende, è ancora troppo presto e il punto non sarà in agenda al Coreper (l’incontro tra i Rappresentanti permanenti dei 27) di domani.
Secondo il testo uscito dai triloghi, tutte le imprese con oltre 500 dipendenti e un fatturato mondiale superiore a 150 milioni di euro non avrebbero più potuto chiudere un occhio sul mancato rispetto di vincoli etici e ambientali su tutta la catena di approvvigionamento. E gli obblighi sarebbero valsi anche per le medie imprese – con più di 250 dipendenti e un fatturato superiore a 40 milioni di euro – nei settori della produzione e commercio all’ingrosso di prodotti tessili, abbigliamento e calzature, agricoltura, silvicoltura e pesca, produzione di alimenti e commercio di materie prime agricole, estrazione e commercio all’ingrosso di risorse minerarie o fabbricazione di prodotti correlati e edilizia.
Ma di fronte alle resistenze di 14 governi nazionali – tra cui Italia, Germania e Francia – il Consiglio dell’Ue ha proposto di innalzare le soglie per l’applicazione delle norme da 500 a 1000 dipendenti e da 150 milioni a 300 milioni di fatturato. Qualcosa si è mosso, come dimostra l’endorsement al nuovo testo annunciato oggi dal segretario di Stato della Finlandia, uno dei contrari della prima ora con Berlino, Roma e Vienna.
Quanto manca al sì: le posizioni di Germania e Italia
Per raggiungere la maggioranza qualificata, serve avere dalla propria parte 15 Paesi su 27, che rappresentino almeno il 65 per cento della popolazione totale dell’Ue. Con il cambio di posizione di Helsinki, ne manca solo uno perché la partita si riapra e il testo approdi nuovamente in Eurocamera per l’approvazione finale. Che – viste le modifiche – non sarebbe in ogni caso scontata.
Il segretario di Stato all’Economia e al Clima tedesco, Sven Giegold, aveva dato il proprio appoggio al testo emendato, che ha il merito di accogliere “molte delle preoccupazioni dell’industria”. Ma il ministro, che fa parte del partito dei Verdi, resta ostaggio dei liberali nella coalizione a semaforo che governa a Berlino. “Non posso parlare per l’intero governo: sapete che abbiamo una coalizione di tre partiti, di cui due vorrebbero appoggiare la direttiva e uno è ancora scettico“.
Anche l’altro grande bastian contrario, l’Italia, non sembra essersi convinta. Quanto meno dalle dichiarazioni del ministro per le Imprese e il Made in Italy, Adolfo Urso, che ha parlato di “posizione condivisa con altri Paesi produttori come Germania e Austria” e insistito sulla necessità di dare “effettive garanzie e quindi eccezioni alle piccole medie imprese che non possono ovviamente seguire tutta la filiera produttiva”. Un punto questo, che a ben vedere è già pienamente riconosciuto dal testo belga, visto che le imprese rimangono medie fino a 250 dipendenti e un fatturato non superiore ai 50 milioni di euro.