Bruxelles – Una legislazione che potrebbe fungere da gold standard nel mondo, attesa da quasi 30 milioni di lavoratori digitali in Europa. Eppure, la direttiva Ue che garantirebbe migliori diritti a chi lavora nella Gig economy, è stata presa in ostaggio da quattro Stati membri a pochi metri dal traguardo. E ora rischia di saltare, almeno fino alla prossima legislatura. Quando si stima che i lavoratori tramite app saranno già 43 milioni.
“Una decisione incomprensibile”, aveva commentato incredula la relatrice della proposta di legge per l’Eurocamera, la democratica Elisabetta Gualmini, dopo il blocco della direttiva – ad accordo già raggiunto tra le istituzioni Ue – da parte di Francia, Germania, Estonia e Grecia lo scorso 16 febbraio. Perché perseverare è diabolico: era infatti la seconda volta che all’ultimo passaggio previsto dall’iter legislativo, quello dell’approvazione formale dell’accordo da parte degli Stati membri, la direttiva saltava. La prima volta a pochi giorni da Natale, come una beffa per i milioni di riders impegnati nella consegna di pacchi e pacchetti.
In quell’occasione, i Paesi ad opporsi ad un testo molto ambizioso erano stati addirittura 12. A quel punto l’Eurocamera – e la presidenza belga del Consiglio dell’Ue – si sono rimboccate le maniche e hanno limato la direttiva, ammorbidendola per venire incontro alle richieste dei governi dell’Ue. “La nostra linea rossa è il cambiamento dello status quo, cioè l’inversione dell’onere della prova“, ha spiegato Gualmini alla stampa. In sostanza: il perno su cui si basa la direttiva è l’introduzione della presunzione di lavoro subordinato, per venire finalmente in soccorso agli oltre 5,5 milioni di lavoratori delle piattaforme digitali che secondo le stime Ue sarebbero erroneamente classificati come autonomi in tutta l’Ue.
I due poli della direttiva: la presunzione di rapporto subordinato e l’inversione dell’onere della prova
Nel primo accordo, Consiglio dell’Ue ed Eurocamera avevano stabilito che affinché scattasse la presunzione di rapporto subordinato, sarebbe stata necessaria la copresenza di due su cinque indicatori, che riguardavano i limiti massimi alla somma di denaro che i lavoratori possono ricevere, il controllo sull’assegnazione, distribuzione e svolgimento delle mansioni, le restrizioni sulla scelta degli orari e sulla libertà di organizzare il lavoro, le norme sull’aspetto fisico o di comportamento. Troppo in là: nell’accordo di febbraio, questo vincolo era stato eliminato. E sostituito dall’obbligo per i governi nazionali di “stabilire una presunzione legale relativa dell’occupazione a livello nazionale”, affinché la presunzione di rapporto subordinato potesse essere innescata da “fatti indicanti controllo e direzione, secondo la normativa nazionale e i contratti collettivi vigenti“.
In entrambi i casi, era rimasta la seconda colonna portante della direttiva a tutela dei lavoratori digitali: l’inversione dell’onere della prova, ovvero lo spostamento dal lavoratore alla piattaforma dell’obbligo di raccogliere le prove per dimostrare che un lavoratore è veramente autonomo. Nonostante il nuovo compromesso al ribasso, Parigi ha votato contro l’accordo, mentre Berlino, Atene e Tallin si sono astenuti. Che, ai sensi del voto, vale come una posizione contraria. Ed è sufficiente quindi a formare una minoranza di blocco di 4 Paesi.
“Un aggressività delle lobby mai vista” e gli interessi dei Paesi membri
“Il vero elefante nella stanza è un’aggressività delle attività di lobby mai vista in Parlamento”, hanno denunciato i Socialisti e democratici (S&d). Le grandi piattaforme digitali dispongono di budget enormi e intere equipe per influenzare le politiche europee, come dimostra la recente vicenda di Amazon, a cui l’Eurocamera ha ritirato ben 14 badge per l’ingresso nelle proprie sedi. Gualmini ha spiegato che, nel corso dei due anni in cui ha lavorato al dossier, ha sempre incontrato le delegazioni delle piattaforme insieme alle federazioni sindacali. E che il giorno del voto sulla direttiva all’emiciclo di Strasburgo, alcune grandi aziende “hanno chiamato tutti gli eurodeputati e hanno affisso cartelloni pubblicitari in tutte le stazioni della metro del quartiere europeo” di Bruxelles.
Se si pensa che ci sono oltre 600 piattaforme digitali in Ue, è chiaro il peso che possono esercitare per spostare gli equilibri. Anche se alcune – come Just Eat – sono “a favore della direttiva perché non vogliono un mercato sleale”. Ma le attività di lobby non si sono rivolte solo verso il Parlamento europeo. Anche e soprattutto verso i governi nazionali. Non è un caso – ha insistito Agnes Jongerius, portavoce degli S&d per le politiche sul lavoro – che Bolt sia nata proprio in Estonia, e che il presidente francese Emmanuel Macron avesse favorito, nelle vesti di ministro dell’Economia del governo di Francois Hollande, l’ingresso di Uber sul territorio nazionale.
Al di là del governo conservatore di Kyriakos Mītsotakīs in Grecia, a legare l’esecutivo di Kaja Kallas in Estonia, quello di Macron in Francia e quello di Olaf Scholz in Germania, è una formazione politica: i liberali. Che governano a Tallin e a Parigi, che fanno parte della coalizione a semaforo che guida Berlino. “La colpa è dei liberali, non di Scholz“, è la linea dei socialdemocratici, di cui la Spd tedesca (il partito del cancelliere) è un partito di punta anche tra i banchi dell’Eurocamera. “Abbiamo parlato con Scholz e con l’Spd, ma l’accordo nel governo tedesco è che se un partito della coalizione non è d’accordo, si astengono”, spiegano. Perché in effetti, basterebbe il cambio di posizione di un Paese soltanto per sbloccare lo stallo.
La presidenza di turno belga del Consiglio dell’Ue ha messo in agenda un nuovo tentativo, l’11 marzo, per finalizzare la direttiva prima della fine della legislatura. Ma “se non ci sarà accordo, voteremo in prima lettura il testo del primo accordo, quello più forte”, ha avvertito ancora Elisabetta Gualmini. In questo modo, l’Eurocamera salverebbe il lavoro fatto negli ultimi due anni, passando il testimone – ma solo per le negoziazioni con il Consiglio – ai futuri eurodeputati.