Si è tenuta a Roma il 21 febbraio la conferenza “La lingua che conviene”, organizzata dall’Associazione internazionale interpreti di conferenza, sezione italiana, per riflettere sull’uso e l’abuso della lingua italiana, madre e matrigna di italiani vecchi e nuovi, nello scenario globale della volatilità delle frontiere e delle identità.
Nel dibattito sono puntualmente emerse le grandi contraddizioni della nostra lingua, di come viene parlata e scritta ma anche insegnata a italiani e stranieri. Uno degli eterni argomenti di discussione è l’abuso di parole inglesi nell’informazione ma ormai anche in altri campi come quello dei testi di legge di cui anche il Comitato di legislazione del Senato recentemente si è lamentato.
Il ricorso a termini stranieri quando una soluzione italiana è sempre possibile è un segno di debolezza culturale. Chi lo pratica implicitamente afferma che non crede nell’efficacia dell’italiano ad esprimere la modernità e al tempo stesso rivela la sua incompetenza linguistica nell’incapacità di coniare un neologismo o di individuare un termine italiano corrispondente.
L’Università di Cagliari, che partecipava all’evento, ha presentato un video di alcune studentesse che leggevano una poesia a più voci. Nei titoli di coda è scorsa una scritta che leggeva: “Le studentesse erano guidate dalla coach di dizione e lettura”. La deviazione linguistica dell’uso di anglicismi a sproposito è così radicata che è passata inosservata perfino a chi produceva un video sul corretto uso della lingua italiana.
Questi comportamenti sbagliati hanno radici nella scuola e nella società e denotano un atteggiamento culturale perdente, di vassallaggio e inadeguatezza nei confronti di altre lingue percepite come vincenti. Ma il danno rischia di diventare più profondo e di minacciare la sussistenza stessa della lingua italiana quando si entra nel campo dell’intelligenza artificiale. La mancanza di neologismi soprattutto per nuovi concetti tecnici e scientifici impedisce lo sviluppo di strumenti di intelligenza artificiale nella nostra lingua e la preclude alle grandi innovazioni che si stanno producendo. In pratica potrebbe accadere che fra qualche decennio la lingua italiana non sia più capace di sviluppare pensiero nei nuovi campi della scienza e della tecnologia a cui l’intelligenza artificiale sta spianando la via perché le mancano le parole.
A questo danno forse irreparabile contribuisce anche la pratica sempre più diffusa di università che offrono insegnamenti solo in inglese, anche qui precludendo la sviluppo del sapere nella nostra lingua. Il processo che si annuncia è quello di una “dialettizzazione” della lingua italiana che come i nostri dialetti si impoverirà al punto da divenire incapace di esprimere i concetti della contemporaneità e finirà per ridursi a lingua di casa, di uso famigliare e circoscritto.
Una reazione per sventare questa condanna annunciata di subordinazione culturale dovrebbe muoversi in due direzioni. Innanzitutto non si deve rinunciare all’uso dell’ inglese nell’insegnamento universitario, anzi lo si deve approfondire ed estendere in modo autenticamente competitivo con le altre università anglofone europee ma sviluppando nel contempo una sorta di bilinguismo italiano-inglese, in modo che la nostra lingua rimanga aggiornata e continui ad arricchirsi di parole e concetti nuovi, restando al passo con i tempi nella ricerca e nell’innovazione tecnologica. Parallelamente si deve investire fortemente nella promozione della nostra lingua all’estero, rendendo il suo insegnamento attraente non solo per la tradizionale offerta culturale cui la nostra lingua dà accesso ma anche per le opportunità di studio nelle nostre università.
E qui viene un punto che ho sollevato in varie istanze senza mai trovare sensibilità e attenzione a livello istituzionale. Bisogna svecchiare il nostro sistema di insegnamento dell’italiano all’estero e seguire il modello di altri paesi molto più dinamici ed efficaci di noi che hanno sviluppato per la loro lingua un marchio, un’immagine distintiva ed attraente. Campioni della promozione linguistica sono in Europa gli spagnoli che hanno abilmente associato la loro lingua al divertimento giovanile. Anche i francesi hanno sviluppato una strategia efficace di promozione del francese come lingua della varietà linguistica e del multilinguismo. E ci voleva tutto il micidiale spirito di “grandeur” dei francesi per riuscire a camuffare da egualitarismo linguistico la promozione della loro lingua che oggi si dichiara lingua d’Africa e si sta velocemente diffondendo come lingua terza perfino nei Balcani.
Come ho recentemente scritto, noi invece non siamo neanche capaci di avere una denominazione unica per il nostro diploma di italiano per stranieri. Con le ostiche sigle di CELI e CILS le università per stranieri di Siena e Perugia si contendono il triste primato della farraginosità. Esiste una Società Dante Alighieri che ha una vastissima rete in tutto il mondo ma non si capisce bene quale missione abbia e assomiglia più al Rotary Club che a un’istituzione pubblica. La Società Dante Alighieri dovrebbe avere la prerogativa dell’insegnamento dell’italiano, lasciando agli Istituti italiani di cultura la promozione culturale soltanto, che in tal modo potrebbero sviluppare più profondamente. Come fanno i francesi che hanno l’Alliance française per l’insegnamento della lingua e gli Instituts de France per la promozione culturale. Poi dovremmo infine darci una strategia di insegnamento dell’italiano all’estero mirando in primo luogo alle aree del mondo dove la nostra lingua ha già una diffusione significativa e un prestigio.
L’America latina, i Balcani, le nostre ex colonie, per cominciare. Con l’obiettivo di attirare in tal modo studenti nelle nostre università ed esercitare una sana diplomazia di influenza in questi paesi, formandone in Italia le future classi dirigenti. Non per rifondare l’Impero ma per diffondere i valori europei di coesistenza pacifica, creare legami virtuosi che portino a più stretti rapporti e cooperazione internazionale, così anche instaurando delle vie di immigrazione legale di nuovi italiani pienamente capaci di inserirsi nel nostro paese.
E perché anche non svecchiare l’immagine dell’italiano dandogli una nuova connotazione? Abbiamo a nostra disposizione la miniera inesauribile di Dante e della sua Commedia. Si immagini che attrattiva avrebbe un diploma di italiano intitolato a Dante con tre livelli di competenza corrispondenti ai livelli europei A,B e C dove A è l’Inferno, B il Purgatorio e C il Paradiso. Se fossi straniero mi iscriverei subito a un corso anche solo per ostentare un diploma dove c’è scritto, in perfetti endecasillabi, che sono all’Inferno, primo girone, con sopra il profilo di Dante ma per una volta sorridente, divertito, non sempre lì imbronciato a pensare a Beatrice come lo vediamo sempre nell’iconografia nazionale. Non è difficile immaginare quale presa avrebbe su un pubblico di giovani studenti questo pur semplicissimo accorgimento nella sua trivialità.
Senza parlare poi dell’altra grande risorsa che offrirebbe l’opera lirica quanto a riferimenti e immagine. Perché non costruire su questi elementi e lanciare l’italiano come lingua della musica e del bel canto?
Solo scrivendo queste idee alla rinfusa, vedo già uno spot pubblicitario con un coro verdiano. Possibile che nelle nostre università e nei nostri ministeri non ci sia nessuno capace di altrettanta fantasia e creatività? Da direttore dell’Istituto italiano di cultura di Parigi ho constatato quanto sia difficile cambiare la minima cosa nella macchina amministrativa italiana. Questa incapacità di cambiare piano piano ci paralizzerà. Diventeremo come i nostri monumenti: vecchie pietre perfettamente conservate ma morte e mute.