Bruxelles – Viktor Orbán è in difficoltà. È accaduto poche volte nei suoi quasi 14 anni da primo ministro dell’Ungheria, ma tra l’ondata di proteste popolari che ha travolto le istituzioni nazionali nell’ultima settimana e la pressione esterna causata dal continuo procrastinare la ratifica del protocollo di adesione della Svezia alla Nato, l’uomo forte di Budapest rischia di arrivare alle elezioni europee di giugno in grossa difficoltà. “Il 2024 non poteva iniziare in modo peggiore, il nostro Presidente della Repubblica ha presentato le sue dimissioni al Parlamento, è come un incubo che si ripercuote su tutti noi”, ha esordito nel suo discorso alla nazione il premier Orbán sabato scorso (17 febbraio).
Il lungo intervento di inizio anno è andato in scena mentre decine di migliaia di persone nelle maggiori città del Paese hanno rafforzato le proteste contro il sistema di potere che si è reso responsabile dello scandalo di abusi sessuali su minori. Tutto è nato con la grazia concessa dall’ormai ex-presidente dell’Ungheria, Katalin Novák, e appoggiata dalla ministra della Giustizia dimissionaria, Judit Varga, al vicedirettore di un orfanotrofio statale che era stato incarcerato per aver coperto una serie di abusi sessuali sui minori nella struttura. La grazia era stata concessa lo scorso anno, ma la notizia è diventata di dominio pubblico solo nelle ultime settimane, scatenando l’indignazione popolare. È così che la pressione dell’opinione pubblica ha costretto alle dimissioni entrambe le dirette responsabili – ed entrambe strette alleate di Orbán – anche se le manifestazioni di piazza non si sono placate. “Dobbiamo sottoporre un nuovo pacchetto legislativo sulla protezione dell’infanzia all’Assemblea Nazionale“, ha affermato nel suo discorso il primo ministro, che ora rischia sul piano politico non tanto per la tenuta del governo – in Parlamento può contare su oltre i due terzi dei deputati e le elezioni sono previste per il 2026 – quanto piuttosto per le prospettive di un rafforzamento di Fidesz nella prossima legislatura a Bruxelles.
Ma non sono solo le proteste popolari in Ungheria a mettere sotto pressione il governo Orbán. È passato ormai quasi un mese da quando lo stesso premier ungherese aveva confermato che “alla prima occasione possibile” sarebbe arrivato il voto dell’Assemblea Nazionale di Budapest per la ratifica del protocollo di adesione della Svezia alla Nato. Rimasto l’unico Paese membro dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord a non aver approvato in modo formale l’ingresso di Stoccolma come 32esimo membro dell’Alleanza Atlantica – dopo lo sblocco dello stallo con il voto favorevole della Grande Assemblea Nazionale Turca – Orbán ha fatto cadere formalmente il suo breve ostruzionismo, ma lo stesso non ha fatto il suo partito Fidesz, che controlla 116 seggi (su 199) all’Assemblea Nazionale. Nonostante le promesse del premier sulla ratifica “non appena il Parlamento tornerà a riunirsi”, due settimane fa i deputati di Fidesz hanno boicottato la sessione straordinaria con all’ordine del giorno proprio il voto sulla richiesta di adesione della Svezia alla Nato.
“La buona notizia è che la nostra attuale controversia con la Svezia si sta avviando verso una conclusione, insieme al primo ministro svedese abbiamo compiuto passi importanti per ricostruire la fiducia”, ha affermato di nuovo Orbán nel suo discorso alla nazione, promettendo ancora che “siamo in procinto di ratificare l’adesione della Svezia alla Nato all’inizio della sessione primaverile del Parlamento“. La prossima sessione in agenda è lunedì prossimo (26 febbraio), ma ancora non ci sono indicazioni sul fatto che il voto possa arrivare così velocemente. Ma l’impazienza degli altri 30 alleati sta crescendo, tanto che a Washington Orbán è stato definito “il membro meno affidabile della Nato” – stando alle parole del presidente della commissione Esteri del Senato, Ben Cardin – anche a proposito dello stretto rapporto del premier ungherese con Vladimir Putin. Non sembra essere un caso che nel suo discorso di sabato Orbán abbia messo in chiaro di guardare con speranza al ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca per “trovare la pace nella metà orientale dell’Europa”, mentre le posizioni di The Donald su Russia e Ucraina preoccupano non poco la maggioranza dei Paesi membri dell’Ue: “È tempo di un’altra presidenza Make America Great Again negli Stati Uniti”, ha ribadito il più stretto alleato di Trump tra i Ventisette.