Bruxelles – Senza unità di intenti di Francia e Germania l’Unione europea non può funzionare, ma un modello europeo troppo basato sulle istanze franco-tedesche rischia di non portare da nessuna parte, se non ai margini di un mondo sempre più competitivo. Il messaggio che arriva dal dibatitto su ‘L’Unione europea ai tempi della nuova guerra fredda’ è quello di una riforma dell’architettura a dodici stelle, per superare un assetto troppo confederale e troppo poco federale.
“Le prossime elezioni europee non saranno solo un voto sul tipo di transizione che vogliamo, saranno innanzitutto un voto sulla nostra autonomia strategica“, sottolinea Carlo Corazza, capo dell’ufficio del Parlamento europeo in Italia, padrone di casa allo Spazio Europa ‘David Sassoli’ di Roma, cornice del dibattito. “Il Parlamento europeo chiede un’Europa più federale, una riforma dei trattati con voto a maggioranza qualificata su tutte le materie, rendere permanente il NextGenerationEU”.
Una convinzione, quella di una riforma politico-istituzionale, condivisa anche da Antonio Parenti, capo della rappresentanza della Commissione europea in Italia. “Il federalismo è l’ipotesi che dobbiamo considerare” in questo momento storico. Motivi e spiegazioni sono tanti e diversi, e il compito di affrontarli è lasciato a Marco Buti, professore dell’Istituto universitario europeo e già capo della direzione generale Affari economici della Commissione (Dg ECFIN) e capo di gabinetto del commissario per l’Economia, Paolo Gentiloni,
Buti critica il modello economico tedesco, e in particolare il costante surplus finanziario della Germania. “E’ un elemento di debolezza”, taglia corto. “Si produce risparmio, non c’è spazio per investimenti”. Inoltre, continua, “sottrarre costantemente domanda non contribuisce alla crescita globale”. Un invito a spendere, peraltro non nuovo, già motivo di richiami dalla commissione Juncker e dalla commissione von der Leyen. Si potrebbero e si dovrebbero stimolare i consumi interni, soprattutto in un contesto in cui “abbiamo una crescita trainata dall’estero“, ricorda Buti, convinto che “il modello di business europeo non è sostenibile nel medio termine” perché troppo aderente a una realtà tedesca e le sue disfunzioni
Lo pensa anche Marta Dassù, consigliere di Aspen Institute e già viceministro degli Esteri e sottosegretario agli Esteri per il governo italiano. “Il modello tedesco si basava su acquisto di gas russo a basso costo e vendite in Cina, sicuri della protezione degli Stati Uniti”, critica Dassù. “Ora questo modello è fallito” e tutti, a livello di eurozona e di Unione europea, devono farci i conti.
Romano Prodi, che l’Unione europea l’ha vissuta da presidente del Consiglio e presidente della Commissione UE, punzecchia invece la Francia. “Ma davvero vogliamo pensare di fare un esercito europeo quando un Paese da solo ha l’atomica e il diritto di veto” in seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU? Una domanda volutamente polemica, per rilanciare quel percorso che serve per liberare un’Unione europea troppo imbrigliata da logiche franco-tedesche.
“La battaglia deve essere la fine del diritto di veto“, continua Prodi. Soprattutto in tutto ciò che riguarda politica estera e difesa. Perché non è tanto una questione di alleati o avversari. “Dobbiamo capire cosa vogliamo indipendentemente da quello che dicono Biden o Trump“, sottolinea in riferimento ad elezioni presidenziali statunitensi cariche di incognite e preoccupazioni per le possibile implicazioni nelle relazioni bilaterali. Che dovrebbero essere dettate da un’autonomia a dodici stelle che non c’è, come dimostrano le uscite del candidato repubblicano su NATO e difesa.
“Trump non ci sta dicendo di spendere meglio” in difesa, fa notare Romano Prodi. Di fronte a un’Europa con tipi diversi di carrarmati, 27 diversi Stati maggiori, un’industria meno sviluppata e ancor meno integrata, “a Trump interessa un’Europa frammentata“. L’Europa a modello franco-tedesco non può aiutare. Quello che serve è che le spinte franco-tedesche portino verso un’Europa più europea. “Possiamo prendere in mano il nostro destino”, di questo Prodi ne è sicuro. Ma solo se si opera quel cambio di passo che serve. “Fino a oggi noi ci siamo emarginati per non aver preso decisioni. Siamo rimasti fuori dall’Iraq, dalla Libia… In Ucraina ci siamo andati perché trainati da altri”. Serve un’Europa diversa, con una politica estera davvero comune e una difesa che sia tale. Altrimenti il peso geopolitico sarà sempre marginale: “Vedo l’Europa brava a dettare il menù, poi però a tavola si siedono Stati Uniti e Cina”. Più chiaro di così Romano Prodi non poteva essere.