Bruxelles – La seconda volta è più facile. Dopo il braccio di ferro di metà dicembre – con l’accordo trovato e poi all’ultimo momento saltato – tra il Parlamento europeo e gli Stati membri sulla forma finale della direttiva comunitaria per tutelare i diritti degli oltre 28 milioni di lavoratori digitali in Ue, oggi (8 febbraio) è arrivata una nuova fumata bianca. Ancora presente la presunzione di lavoro subordinato, ma accompagnata da molte più prerogative per i governi nazionali.
Il compromesso presentato dalla presidenza belga del Consiglio dell’Ue ha funzionato, anche se nulla vieta che, nell’ultima tappa dell’iter – quella dell’approvazione formale da parte dei 27 – possa verificarsi di nuovo lo stallo. Ma per i 12 Paesi membri, tra cui anche Italia e Francia, che si erano opposti al primo accordo, i passi avanti ci sono stati. L’elemento più controverso uscito dal primo trilogo erano i 5 indicatori scelti, di cui almeno due obbligatori, perché potesse scattare la presunzione di rapporto di lavoro subordinato: questo vincolo non c’è più.
La nuova norme mantiene la presunzione di lavoro subordinato, che però scatterà “quando ricorrano fatti indicanti controllo e direzione, secondo la normativa nazionale e i contratti collettivi vigenti“. Niente criteri armonizzati tra i Paesi membri, ma l’obbligo per i governi nazionali di “stabilire una presunzione legale relativa dell’occupazione a livello nazionale”.
Sarebbe questa la formula trovata per correggere lo squilibrio di potere tra i colossi della Gig economy e i 5,5 milioni di lavoratori delle piattaforme digitali che secondo le stime Ue sarebbero erroneamente classificati come autonomi in tutta l’Ue. E che subiscono di conseguenza la negazione dei diritti lavorativi e sociali: salario minimo (dove esiste), contrattazione collettiva, orario di lavoro, protezione della salute e contro gli incidenti di lavoro, ferie pagate, disoccupazione, malattia e pensione di vecchiaia.
Confermato poi il principio dell’inversione dell’onere della prova: nel momento in cui un lavoratore, i suoi rappresentanti o le autorità competenti faranno valere la presunzione di lavoro subordinato, toccherà ai datori di lavoro, alle piattaforme, dover raccogliere le prove per dimostrare che un lavoratore è veramente autonomo. Non il contrario, come è stato finora.
Oltre a fare luce sul fenomeno del lavoro autonomo fittizio, le nuove norme dovrebbero permettere ai lavoratori digitali e ai loro rappresentanti l’accesso a informazioni sul funzionamento degli algoritmi e su come il loro comportamento influenza le decisioni prese dai sistemi automatizzati. Decisioni che, in particolare per quanto riguarda i licenziamenti o le sospensioni di account, non potranno essere prese senza un controllo umano. Maggiori tutele anche sul trattamento di dati personali dei lavoratori da parte delle piattaforme, che non potranno andare al di là di quelli strettamente inerenti alla vita lavorativa.
Secondo la relatrice della proposta per l’Eurocamera, Elisabetta Gualmini (Pd), alla fine questo secondo accordo ha comunque garantito un “testo equilibrato che tutela i lavoratori, i buoni datori di lavoro e prevede condizioni di parità a livello europeo”. Ne è dunque valsa la pena, piuttosto che ricominciare l’iter da capo. Ma “ora speriamo che gli Stati membri non voltino la faccia a 30 milioni di lavoratori tra i più vulnerabili in Europa e nel mondo”, ha avvisato Gualmini. Lavoratori che, secondo le stime dell’Ue, saranno già 43 milioni nel 2025.