Bruxelles – A pochi giorni dal cruciale vertice straordinario dei leader Ue per trovare l’intesa sulla revisione del Quadro finanziario pluriennale Ue (Qfp) 2021-2027 – con l’altrettanto cruciale capitolo sul sostegno finanziario all’Ucraina – a Bruxelles si stanno affilando i coltelli contro l’Ungheria di Viktor Orbán, pronta a un nuovo ostruzionismo in sede di Consiglio Europeo come già accaduto un mese e mezzo fa. Secondo quanto emerge da un documento redatto dal Segretariato del Consiglio e visionato da Financial Times, all’interno dell’istituzione comunitaria si sta delineando un piano per colpire l’economia ungherese in caso di un nuovo veto di Orbán al vertice del primo febbraio, una sorta di controricatto per piegare Budapest ad arrivare a una soluzione negoziata a Ventisette e per mettere fine al gioco ungherese di ‘unanimità in cambio di fondi congelati’.
“In caso di mancato accordo il primo febbraio, gli altri capi di Stato e di governo dichiareranno pubblicamente che, alla luce del comportamento non costruttivo del premier ungherese, non possono immaginare” che i fondi del budget comunitario possano “essere forniti” a Budapest, riporta il documento citato dal quotidiano britannico. In caso di taglio del flusso finanziario, “i mercati finanziari e le imprese europee e internazionali potrebbero essere meno interessati a investire in Ungheria”, con il rischio di “innescare rapidamente un ulteriore aumento del costo di finanziamento del deficit pubblico e un calo della valuta“. Una linea durissima da parte di Bruxelles, che terrebbe così in ostaggio in particolare il Piano nazionale di ripresa e resilienza (9,5 miliardi) e i fondi della politica di coesione (oltre 22 miliardi), mettendo in grave difficoltà l’economia del Paese membro Ue. Il documento – “una nota di fondo” redatta dal Segretariato del Consiglio “sotto la propria responsabilità”, fanno sapere alti funzionari Ue – descrive lo stato attuale dell’economia ungherese, compreso “deficit pubblico molto elevato”, “inflazione molto alta” e “occupazione e crescita in larga misura dipendetti” dai finanziamenti Ue ed esteri.
Il nodo della questione riguarda l’intesa da raggiungere al Consiglio Europeo di giovedì sulla revisione intermedia del bilancio Ue. L’unico capitolo rimasto irrisolto al vertice dei leader del 14-15 dicembre, quando l’opposizione di Orbán all’avvio nei negoziati di adesione con l’Ucraina era stata superata solo con lo scongelamento di 10,2 miliardi di euro in fondi Ue da parte della Commissione. Da un mese e mezzo il premier ungherese non ha mai mostrato alcun segno di apertura all’inserimento nella revisione del Qfp dello strumento finanziario a sostegno di Kiev da 50 miliardi di euro (17 miliardi di sussidi a fondo perduto e 33 miliardi in prestiti), a meno di un’inclusione di revisioni annuali che permettano a Budapest di continuare il ricatto ai tavoli del Consiglio. Ecco perché gli altri membri Ue si sono trovati costretti a ragionare e trovare un’intesa di massima su una soluzione a 26, anche se la soluzione privilegiata rimane quella di un accordo tra tutti i Ventisette sulla revisione del bilancio comunitario con tutti i suoi capitoli.
Le stesse fonti Ue hanno cercato di smorzare la portata delle rivelazioni di Financial Times, ricordando che il documento “non riflette lo stato dei negoziati in corso sul Qfp tra gli sherpa [cioè a livello tecnico, ndr] e a livello di leader dell’Ue”, dal momento in cui “non delinea alcun piano specifico” sullo strumento per l’Ucraina o ai danni dell’Ungheria. È innegabile però che uno studio sull’economia ungherese a pochi giorni da un vertice decisivo per il futuro della stessa Unione Europea e per il sostegno finanziario all’Ucraina non può essere casuale, né tantomeno la forte la presa di distanze della Commissione Europea da una possibile partecipazione a queste discussioni: “Non speculiamo sulla base di una fuga di notizie su discussioni che hanno avuto luogo tra Stati membri sulla preparazione del Consiglio Europeo”, ha messo in chiaro il portavoce-capo dell’esecutivo comunitario, Eric Mamer. Rispondendo alle domande della stampa di Bruxelles, Mamer ha anche ricordato che la Commissione può mettere in campo gli strumenti per regolare l’accesso ai fondi Ue “solo se le condizioni previste dai regolamenti sono soddisfatte“, come quelli sul meccanismo di condizionalità sullo Stato di diritto, sul Next Generation Eu e sul rimborso delle spese sostenute nell’ambito dei fondi di coesione (compresi i 10,2 miliardi scongelati, ma ancora non rimborsati).
Ma il blocco dei fondi Ue non è l’unico pericolo a cui sta andando incontro l’Ungheria. “Se Orbán blocca davvero un nuovo accordo al vertice di febbraio, l’uso dell’articolo 7 per privare l’Ungheria dei suoi diritti di voto potrebbe diventare un’opzione reale”, hanno rivelato a Politico diverse fonti diplomatiche. Il riferimento è al ricorso all’articolo 7 del Trattato sull’Unione Europea, ovvero il meccanismo che permette di sospendere i diritti di adesione all’Ue in caso di violazione “grave e persistente” dei principi fondanti dell’Unione da parte di un Paese membro. Si tratterebbe del livello più duro di misure da poter mettere in campo (a maggioranza qualificata in Consiglio) in caso di ostruzionismo da parte del premier ungherese, invocato con forza anche dalla maggioranza del Parlamento Europeo alla sessione plenaria di gennaio.
Per arrivare a questa sanzione è però necessaria l’unanimità in Consiglio Europeo al riconoscimento della violazione “grave e persistente” da parte del Paese membro accusato, e per questo motivo è necessario considerare chi al tavolo dei leader Ue potrebbe opporsi. Venuta meno l’alleanza con la Polonia di Mateusz Morawiecki (sostituito alla guida del governo dal popolare Donald Tusk), gli alleati più stretti di Orbán sono la premier italiana, Giorgia Meloni, e l’omologo slovacco, Robert Fico. Nessuno dei due primi ministri vorrebbe trovarsi di fronte a una scelta sull’attivazione dell’articolo 7, dal momento in cui lo scetticismo di principio – e la vicinanza politica all’uomo forte di Budapest – questa volta è controbilanciato dalla questione del supporto all’Ucraina (caposaldo del governo Meloni) e dalle risorse da ri-orientare nell’ambito della revisione del bilancio pluriennale (la Slovacchia è particolarmente interessata ai fondi della politica di coesione, l’Italia a quelli per le politiche migratorie). Gli interessi nazionali specifici lasciano ancora apertissima la possibilità che anche l’arma politica più dura a disposizione di Bruxelles possa essere puntata contro Budapest per evitare un nuovo stallo.