Bruxelles – Si chiude una questione, un’altra è pronta a incendiare i rapporti tra Pristina e Belgrado. Dopo l’annuncio della Banca centrale del Kosovo che dal prossimo primo febbraio entrerà in vigore un Regolamento sulle operazioni in contanti in cui l’euro sarà riconosciuto come unica valuta consentita per i pagamenti nel Paese, il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, ha avvertito che utilizzerà “tutti i mezzi disponibili contro il divieto del dinaro in Kosovo”, coinvolgendo direttamente anche la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen: “Ho chiesto che usi tutte le sue forze ed energie per fare in modo che una cosa del genere non accada”.
Ancora una volta – così come la questione delle targhe che ha infiammato gli ultimi due anni e mezzo di rapporti tra Serbia e Kosovo e che si è risolta solo due settimane fa – si tratta di un’esacerbazione delle relazioni tra i due Paesi balcanici che rischia di avere effetti pesanti sul nord del Kosovo abitato da una consistente minoranza etnica serba. A fronte di una posizione netta del più giovane Stato europeo (la cui indipendenza nel 2008 però non è riconosciuta da Belgrado) sulla necessità di introdurre un Regolamento per combattere la contraffazione del denaro e altre forme di criminalità finanziaria, Belgrado ha risposto con un’opposizione di principio e basata su un’interpretazione non fattuale della realtà. Appoggiando la visione del principale partito serbo-kosovaro Lista Srpska, secondo cui si tratterebbe di “espulsione di serbi senza l’uso delle armi”, il presidente serbo Vučić ha parlato esplicitamente di “divieto del dinaro” in Kosovo.
In realtà l’uso esclusivo dell’euro è previsto dalla Costituzione del Kosovo e il Regolamento che entrerà in vigore fra poco più di una settimana stabilisce solo le modalità di applicazione, non includendo in ogni caso le transazioni volontarie tra parti che utilizzano valute diverse dall’euro. In altre parole all’interno dei confini nazionali del Kosovo solo l’euro può essere utilizzato come valuta di cambio e come deposito nei conti bancari, mentre il dinaro serbo può ancora essere scambiato al pari del lek albanese o del dollaro. La decisione avrà comunque un impatto sulle regioni settentrionali del Paese a maggioranza etnica serba, dove alcune banche e servizi pubblici utilizzano esclusivamente il dinaro serbo come valuta corrente, non essendosi mai adeguati all’adozione dell’euro da parte di Pristina nel 2002 (ancora prima dell’indipendenza).
“Stiamo ancora analizzando questa decisione, le ragioni della sua adozione e le possibili implicazioni”, ha spiegato nel punto quotidiano con la stampa europea lo scorso venerdì (19 gennaio) il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano. Prendendo tempo, Stano ha chiesto a Serbia e Kosovo di affrontare la questione nell’ambito del dialogo Pristina-Belgrado facilitato dall’Ue (anche se non è inclusa tra i temi dei colloqui): “Ci aspettiamo che evitino azioni non coordinate che non favoriscono la normalizzazione delle relazioni e che potrebbero avere un impatto negativo sulla stabilità del territorio”. L’Ue sta faticando a gestire le tensioni tra i due Paesi, dopo un 2023 iniziato tra grandi speranze – l’accordo di Bruxelles del 27 febbraio ha definito gli impegni specifici e il 18 marzo a Ohrid è stata raggiunta l’intesa sull’allegato di implementazione – e proseguito con un aumento della conflittualità diplomatica e sul campo.
Tutti i motivi di tensione tra Serbia e Kosovo
Dopo le due riunioni estive del 2021 tra il premier Kurti e il presidente Vučić a Bruxelles, a metà settembre dello stesso anno è scoppiata per la prima volta nel nord del Kosovo la cosiddetta ‘battaglia delle targhe‘. Inizialmente si è trattata di una controversia diplomatica tra Pristina e Belgrado, legata alla decisione del governo Kurti di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro, usate in larga parte proprio dalla minoranza serba nel Paese. La questione è stata momentaneamente risolta grazie alla mediazione Ue, ma l’assenza di una soluzione definitiva ha infiammato la seconda metà del 2022: a fine luglio sono comparsi i primi blocchi stradali e barricate delle frange più estremiste della minoranza serbo-kosovara e due riunioni fallimentari tra Vučić e Kurti a Bruxelles non hanno portato a nessuno sblocco dello stallo.
La situazione si è aggravata quando Lista Sprska ha preso in mano le redini della protesta popolare nel nord del Kosovo. Il 5 novembre sono andate in scena dimissioni di massa di sindaci, consiglieri, parlamentari, giudici, procuratori, personale giudiziario e agenti di polizia dalle rispettive istituzioni nazionali in protesta contro il piano graduale per l’applicazione delle regole sulla sostituzione delle targhe serbe. Tra i dimissionari c’erano anche i sindaci di Kosovska Mitrovica, Zubin Potok, Zvecan e Leposavić e per questo motivo si è reso necessario tornare alle urne nelle quattro città. Parallelamente è stata raggiunta una soluzione di compromesso sulle targhe nella notte tra il 23 e il 24 novembre a Bruxelles, anche se il presidente serbo ha minacciato di boicottare il vertice Ue-Balcani Occidentali a Tirana a causa della nomina di Nenad Rašić nel governo kosovaro (al posto del leader di Lista Srpska, Goran Rakić), come ministro per le Comunità e il ritorno dei profughi. Rašić è il leader del Partito Democratico Progressista, formazione serba ostile a Belgrado.
Il 2022 si è chiuso con una nuova escalation di tensione ai valichi di frontiera nel nord del Kosovo, dopo la decisione di Pristina di inviare alcune centinaia di forze di polizia per sopperire alla mancanza di agenti dimessisi sempre a novembre. Le barricate delle frange serbo-kosovare più estremiste sono state smantellate solo dopo alcune settimane grazie allo sforzo diplomatico dei partner europei e statunitensi. L’appuntamento alla nuova crisi doveva attendere solo cinque mesi, il 26 maggio 2023. A causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica sono scoppiate violentissime proteste con la responsabilità di esponenti di Lista Srpska, trasformatesi il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato. La tensione è deflagrata per la decisione del governo Kurti di far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti il 23 aprile, in una tornata elettorale controversa per la bassissima affluenza al voto.
Parallelamente è andato in scena il 14 giugno un arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi, per cui i governi di Pristina e Belgrado si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine, in una zona di confine scarsamente controllata e utilizzata dai contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. Dopo settimane di continui appelli alla calma e alla de-escalation non ascoltati, Bruxelles ha convocato una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per uscire dalla “modalità gestione della crisi”. Il 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari da parte della Serbia, ma la questione delle tensioni tra Pristina e Belgrado è finita anche nelle conclusioni del Consiglio Europeo del 29-30 giugno.
A causa del mancato “atteggiamento costruttivo” da parte di Pristina per la de-escalation della tensione, Bruxelles ha imposto a fine giugno misure “temporanee e reversibili” contro il Kosovo, che prevedono anche la sospensione del lavoro degli organi dell’Accordo di stabilizzazione e associazione. Per eliminare queste misure è stata concordata il 12 luglio una tabella di marcia con quattro tappe, ma ancora sono in vigore. A pochi giorni da un infruttuoso incontro di alto livello a Bruxelles, la situazione tra Serbia e Kosovo è però degenerata con l’attacco terroristico iniziato nelle prime ore del 24 settembre nei pressi del monastero serbo-ortodosso di Banjska, quando la polizia kosovara è arrivata per la segnalazione di un posto di blocco illegale al confine con la Serbia. Dopo aver ucciso un poliziotto e averne feriti altri due, un gruppo di una trentina di uomini armati è entrato nel complesso monastico e per tutta la giornata sono proseguiti gli scontri. Durante “l’operazione di sgombero” sono morti tre dei terroristi.
Gli sviluppi del post-24 settembre hanno evidenziato diramazioni evidenti nella vicina Serbia. Come mostrato da un video girato da un drone nel giorno dell’attentato, tra gli attentatori all’esterno del monastero c’era anche Milan Radoičić, vice-capo di Lista Srpska. Il 29 settembre lo stesso Radoičić ha confermato di aver guidato l’attacco armato, una confessione che ha gettato una lunga ombra non solo sulla partecipazione della leadership serbo-kosovara in una strategia di destabilizzazione del Paese, ma soprattutto sulla capacità di Belgrado di interferire negli affari interni di Pristina. A questo si aggiungono le rivelazioni sulla presenza anche di Milorad Jevtić, stretto collaboratore del figlio del presidente serbo, Danilo Vučić. Secondo quanto emerso da un’indagine di Balkan Insight, le armi utilizzate nell’attacco erano state fabbricate in Serbia nel 2022 e alcuni proiettili di mortaio e granate erano stati riparati nei centri di manutenzione statali serbi nel 2018 e nel 2021.
A peggiorare infine le relazioni tra Kosovo e Serbia è stato l’avvertimento degli Stati Uniti di un “grande dispiegamento militare” serbo lungo il confine amministrativo. La minaccia non si è concretizzata – secondo il premier Kurti era prevista un’annessione del nord del Kosovo con “un attacco coordinato su 37 posizioni distinte” – ma l’Unione Europea ha iniziato a riflettere sulla possibilità di imporre le stesse misure in vigore contro Pristina anche ai danni di Belgrado. “Dobbiamo assicurarci di utilizzare al meglio gli strumenti di cui l’Ue dispone per incoraggiare entrambe le parti a contribuire a una soluzione della crisi”, aveva spiegato a Eunews il portavoce del Seae, Peter Stano. Ma per il via libera alle misure nei confronti della Serbia serve l’unanimità in Consiglio e ma il più stretto alleato di Vučić dentro l’Unione – il premier ungherese, Viktor Orbán – ha posto il veto. L’unica notizia positiva al momento è la risoluzione della ‘battaglia delle targhe’ tra Serbia e Kosovo, grazie alla decisione arrivata tra fine 2023 e inizio 2024 sul mutuo riconoscimento per i veicoli in ingresso alla frontiera.
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