Bruxelles – Le speranze della fine del 2023 diventano realtà nei primi giorni del 2024. Dopo quasi due anni e mezzo dallo scoppio della cosiddetta ‘battaglia delle targhe’ tra Kosovo e Serbia, si è chiuso in modo formale uno dei capitoli più bui della storia recente dei rapporti tra i due Paesi balcanici, la causa originaria di tutta l’escalation di tensione tra Pristina e Belgrado che ha visto proprio nello scorso anno diversi momenti di violenza nel nord del Kosovo. Un successo tangibile, reso possibile dall’instancabile mediazione delle istituzioni dell’Unione Europea che – nel pieno delle polemiche per alcune carenze nella gestione di un rapporto difficilissimo tra i due partner – può ora esultare per le conseguenze positive che la decisione dei governi kosovaro e serbo comporterà sul terreno.
“L’Ue accoglie con favore la decisione del Kosovo e della Serbia di riconoscere formalmente le rispettive targhe automobilistiche e di abolire completamente il regime di autoadesivi” è il commento dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell: “Questa decisione – ha sottolineato – rappresenta un passo positivo nell’attuazione dell’Accordo sul percorso di normalizzazione e degli impegni assunti in passato nell’ambito del dialogo sulla libertà di circolazione”. Era il 2011 quando Serbia e Kosovo accettavano per la prima volta di riconoscere vicendevolmente le rispettive targhe, grazie a un accordo mediato dall’Ue nel corso del primo anno di dialogo Pristina-Belgrado per la normalizzazione delle relazioni. Tuttavia, la decisione non è mai stata pienamente attuata e i veicoli provenienti dal Kosovo in Serbia e viceversa potevano attraversare il confine solo con appositi bolli per coprire i simboli nazionali. Dal settembre del 2021 le targhe dei veicoli sono diventate il (primo) punto di rottura per le relazioni tra il governo kosovaro di Albin Kurti e il presidente serbo, Aleksandar Vučić, con l’epicentro della tensione nel nord del Kosovo abitato da una consistente minoranza etnica serba.
Era stato il capo dell’ufficio governativo serbo per il Kosovo, Petar Petković, a confermare lo scorso 25 dicembre che dal primo gennaio 2024 tutti i veicoli con targa della Repubblica del Kosovo avrebbero potuto attraversare liberamente il confine con la Serbia. Il 5 gennaio anche il governo kosovaro ha annunciato la stessa misura, aprendo la strada per la risoluzione della controversia che avrà un impatto tangibile nella vita di tutti i giorni dei cittadini dei due Paesi balcanici. Come messo in chiaro dall’alto rappresentante Borrell, l’accordo “dimostra che è possibile progredire nella normalizzazione delle relazioni tra Kosovo e Serbia” e sottolinea ancora di più “l’importanza di continuare a lavorare nell’ambito del Dialogo facilitato dall’Ue”. Senza dimenticare che si tratta anche di “un passo nella giusta direzione verso una migliore integrazione regionale ed europea dei Balcani Occidentali, che in ultima analisi va a vantaggio dei cittadini della regione”, ha ribadito il capo della diplomazia europea.
Dalla battaglia delle targhe all’attentato nel nord del Kosovo
Dopo le due riunioni estive del 2021 tra il premier Kurti e il presidente Vučić a Bruxelles, a metà settembre dello stesso anno è scoppiata per la prima volta nel nord del Kosovo la cosiddetta ‘battaglia delle targhe‘. Inizialmente si è trattata di una controversia diplomatica tra Pristina e Belgrado, legata alla decisione del governo Kurti di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro, usate in larga parte proprio dalla minoranza serba nel Paese. La questione è stata momentaneamente risolta grazie alla mediazione Ue, ma l’assenza di una soluzione definitiva ha infiammato la seconda metà del 2022: a fine luglio sono comparsi i primi blocchi stradali e barricate delle frange più estremiste della minoranza serbo-kosovara e due riunioni fallimentari tra Vučić e Kurti a Bruxelles non hanno portato a nessuno sblocco dello stallo.
La situazione si è aggravata quando Lista Sprska ha preso in mano le redini della protesta popolare nel nord del Kosovo. Il 5 novembre sono andate in scena dimissioni di massa di sindaci, consiglieri, parlamentari, giudici, procuratori, personale giudiziario e agenti di polizia dalle rispettive istituzioni nazionali in protesta contro il piano graduale per l’applicazione delle regole sulla sostituzione delle targhe serbe. Tra i dimissionari c’erano anche i sindaci di Kosovska Mitrovica, Zubin Potok, Zvecan e Leposavić e per questo motivo si è reso necessario tornare alle urne nelle quattro città: in programma inizialmente per il 18 dicembre, sono state poi rinviate al 23 aprile. Parallelamente è stata raggiunta una soluzione di compromesso sulle targhe nella notte tra il 23 e il 24 novembre a Bruxelles, anche se prima del vertice Ue-Balcani Occidentali del 6 dicembre a Tirana il presidente serbo Vučić ha minacciato di boicottarlo a causa della nomina di Nenad Rašić all’interno del governo kosovaro (al posto del leader di Lista Srpska, Goran Rakić), come ministro per le Comunità e il ritorno dei profughi all’interno del governo kosovaro. Rašić è il leader del Partito Democratico Progressista, formazione serba ostile a Belgrado e concorrente di Lista Srpska.
Il 2022 si è chiuso con una nuova escalation di tensione ai valichi di frontiera nel nord del Kosovo, dopo la decisione di Pristina di inviare alcune centinaia di forze di polizia per sopperire alla mancanza di agenti dimessisi sempre a novembre. Le barricate delle frange serbo-kosovare più estremiste sono state smantellate solo dopo alcune settimane grazie allo sforzo diplomatico dei partner europei e statunitensi. L’appuntamento alla nuova crisi doveva attendere solo cinque mesi, più precisamente il 26 maggio 2023. A causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica sono scoppiate violentissime proteste con la responsabilità di esponenti di Lista Srpska, trasformatesi il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). La tensione è deflagrata per la decisione del governo Kurti di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti il 23 aprile, in una tornata elettorale controversa: l’affluenza al voto è stata tendente all’irrisorio – attorno al 3 per cento – a causa del boicottaggio proprio di Lista Srpska.
Dopo il dispiegamento nel Paese balcanico di 700 membri aggiuntivi del contingente di riserva Kfor, nuove proteste sono scoppiate a inizio giugno per l’arresto di due manifestanti accusati di essere tra i responsabili delle violenze di fine maggio. Parallelamente è andato in scena il 14 giugno un arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi, per cui i governi di Pristina e Belgrado si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine, in una zona di confine tra il nord del Kosovo e il sud della Serbia scarsamente controllata dalla polizia kosovara e solitamente usata da contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. Dopo settimane di continui appelli alla calma e alla de-escalation non ascoltati, Bruxelles ha ritenuto necessario convocare una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per cercare delle vie percorribili per ritornare fuori dalla “modalità gestione della crisi”. Il 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari da parte della Serbia, ma la questione delle tensioni tra Pristina e Belgrado è finita anche nelle conclusioni del Consiglio Europeo del 29-30 giugno.
A causa del mancato “atteggiamento costruttivo” da parte di Pristina per la de-escalation della tensione, Bruxelles ha imposto a fine giugno misure “temporanee e reversibili” contro il Kosovo, che prevedono anche la sospensione del lavoro degli organi dell’Accordo di stabilizzazione e associazione. Per eliminare queste misure è stata concordata il 12 luglio una tabella di marcia con quattro tappe, ma ancora sono in vigore (come criticato dalla presidente kosovara, Vjosa Osmani, all’ultimo vertice Ue-Balcani Occidentali). A pochi giorni da un infruttuoso incontro di alto livello a Bruxelles, la situazione tra Serbia e Kosovo è però degenerata con l’attacco terroristico iniziato nelle prime ore del 24 settembre nei pressi del monastero serbo-ortodosso di Banjska, quando la polizia kosovara è arrivata per la segnalazione di un posto di blocco illegale al confine con la Serbia. Gli agenti sono stati attaccati da diverse postazioni da un gruppo di una trentina di uomini armati con un pesante arsenale di armi da fuoco che, dopo aver ucciso un poliziotto e averne feriti altri due, è entrato nel complesso monastico dove si trovavano pellegrini provenienti dalla città serba di Novi Sad. Per tutta la giornata sono proseguiti gli scontri durante “l’operazione di sgombero”, in cui sono morti tre dei terroristi.
Gli sviluppi del post-24 settembre hanno però tratteggiato un quadro molto più grave del previsto, con diramazioni evidenti nella vicina Serbia. Come evidenziato da un video girato da un drone nel giorno dell’attentato, tra gli attentatori all’esterno del monastero c’era anche Radoičić, vice-capo di Lista Srpska. Mentre la polizia kosovara ha scoperto un arsenale di armi ed equipaggiamento enormi a disposizione dei terroristi, venerdì (29 settembre) lo stesso Radoičić ha confermato di aver guidato l’attacco armato, mettendo in difficoltà il leader serbo. Questa confessione ha gettato una lunga ombra non solo sulla partecipazione della leadership dei serbo-kosovari in una strategia di destabilizzazione del Paese che potenzialmente va avanti da anni, ma soprattutto sulla capacità di Vučić di interferire negli affari interni di Pristina in modo più o meno nascosto e violento. A questo si aggiungono le rivelazioni sulla presenza anche di Bojan Mijailović (uno dei tre attentatori uccisi), guardia del corpo del capo dei servizi segreti serbi, Aleksandar Vulin, e soprattutto di Milorad Jevtić, stretto collaboratore del figlio del presidente serbo, Danilo Vučić. Secondo quanto emerso da un’indagine di Balkan Insight, le armi utilizzate nell’attacco erano state fabbricate in Serbia nel 2022 e alcuni proiettili di mortaio e granate erano stati riparati nei centri di manutenzione statali serbi nel 2018 e nel 2021.
A peggiorare infine le relazioni tra Kosovo e Serbia è stato l’avvertimento degli Stati Uniti di un “grande dispiegamento militare” serbo lungo il confine amministrativo con “un allestimento senza precedenti di artiglieria avanzata, carri armati e unità di fanteria meccanizzata”. La minaccia non si è concretizzata – secondo il premier Kurti era prevista un’annessione del nord del Kosovo con “un attacco coordinato su 37 posizioni distinte” – ma l’Unione Europea ha iniziato a riflettere sulla possibilità di imporre le stesse misure in vigore contro Pristina anche ai danni di Belgrado. “Dobbiamo assicurarci di utilizzare al meglio gli strumenti di cui l’Ue dispone per incoraggiare entrambe le parti a contribuire a una soluzione della crisi”, aveva spiegato a Eunews il portavoce del Seae, Peter Stano. Ma per il via libera alle misure “temporanee e reversibili” nei confronti della Serbia serve l’unanimità in Consiglio e al momento l’unico veto è stato posto dal più stretto alleato di Vučić dentro l’Unione: il premier ungherese, Viktor Orbán, che definisce “assurdo e ridicolo” lo scenario tratteggiato dai funzionari europei e condiviso dagli altri 26 governi.
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