Bruxelles – La Serbia potrebbe cambiare completamente corso politico, ma la sfida all’Unione Europea rimane fino alla fine del governo a cui lo stesso presidente Aleksandar Vučić ha deciso di mettere fine poco più di due mesi fa. Alla vigilia del voto per il rinnovo del Parlamento in programma domenica (17 dicembre) – dopo appena un anno e mezzo dall’ultima tornata elettorale – la prima ministra in carica, Ana Brnabić, di ritorno da Bruxelles dopo aver partecipato al vertice Ue-Balcani Occidentali ha messo in chiaro per iscritto alle istituzioni comunitarie che non riconosce il valore giuridico degli impegni verbali presi nel contesto del dialogo Pristina-Belgrado e che non sarà riconosciuta nemmeno de facto la sovranità del Kosovo.
“L’Accordo sul percorso di normalizzazione e il suo allegato di attuazione è ritenuto accettabile solo in un contesto che non riguarda il riconoscimento de facto e de jure del Kosovo“, si legge nella lettera inviata dalla prima ministra ieri (14 dicembre) al Servizio europeo per l’azione esterna (Seae). Una posizione che certo non sorprende, ma per la prima volta messa nero su bianco e indirizzata alle istituzioni comunitarie. L’opposizione riguarda in particolare il “riconoscimento dell’appartenenza del Kosovo alle Nazioni Unite, al sistema di organizzazioni e agenzie dell’Onu” ma anche la “cosiddetta integrità territoriale” del Paese che ha dichiarato unilateralmente l’indipendenza da Belgrado nel 2008: “Il suddetto documento non rappresenta un trattato giuridicamente vincolante ai sensi del diritto internazionale”, si legge nella lettera che rappresenta a tutti gli effetti uno schiaffo alla stessa presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, che nel suo viaggio a Belgrado il 31 ottobre aveva messo in chiaro di fronte al presidente Vučić che la priorità non più negoziabile e prorogabile per la Serbia è proprio il riconoscimento de facto di Pristina come concordato nel dialogo facilitato dall’Ue. “L’allineamento alla presente Dichiarazione non pregiudica il fatto che il Kosovo rimanga parte integrante del territorio della Repubblica di Serbia“, conclude la lettera.
Tredici anni di negoziati e di impegno diplomatico dell’Ue per risolvere una delle questioni più spinose in Europa sono andati in fumo con una lettera di 12 righe, firmata da una premier dimissionaria per volontà del presidente della Repubblica (ed ex-leader del suo stesso partito, il Partito Progressista Serbo). Difficile però non vedere questa mossa non solo come l’ennesima provocazione a Bruxelles, ma soprattutto come un messaggio di propaganda interna in vista di un voto che potrebbe per la prima volta mettere in seria difficoltà il partito al potere. In particolare se si considerano anche le parole di Vučić in una recente intervista a proposito del punto più delicato per le relazioni Ue-Serbia, l’allineamento alla politica estera dell’Unione. Il presidente serbo ha ridicolizzato gli altri Paesi balcanici che hanno scelto questa strada e ha definito le difficoltà della controffensiva ucraina un’occasione per Belgrado per inserirsi in un ambiente geopolitico “più favorevole” dopo che i Paesi occidentali si sono resi conto che “non possono sconfiggere la Russia militarmente“.
Domenica, appuntamento elettorale tra i più cruciali della storia recente, bisognerà fare attenzione in particolare alla performance delle forze di opposizione che fino a oggi sono rimaste frammentate. Come fanno notare gli analisti, la più concreta minaccia al potere di Vučić è rappresentata dalla coalizione ‘La Serbia contro la violenza’, composta da una decina di partiti e movimenti civici che spaziano dal centro all’ecologismo di sinistra e formatasi dopo la traduzione in istanze politiche (europeiste) delle proteste di piazza contro il clima che ha portato alle sparatorie di maggio. È in particolare la capitale Belgrado la città più contendibile, ma anche nel resto del Paese le proteste hanno continuato a riempire le piazze per mesi, e per l’opposizione al partito al potere Sns è arrivata oggi l’opportunità più concreta per capitalizzare un sentimento di insoddisfazione politica crescente.
Il complesso 2023 tra Serbia e Kosovo
Il 2023 era iniziato con Bruxelles che ha condotto un’offensiva diplomatica per arrivare a un’intesa definitiva tra le due parti che risolva di riflesso anche i continui episodi più o meno violenti nel nord del Kosovo. È del 27 febbraio l’accordo di Bruxelles che ha definito gli impegni specifici che Serbia e Kosovo devono assumersi per la normalizzazione dei rapporti reciproci: una proposta in 11 punti avanzata dall’Ue e concordata da entrambi i leader dei due Paesi balcanici nel corso della riunione-fiume nella capitale dell’Unione Europea. Nonostante il testo non sia stato firmato, a renderlo vincolante per Pristina e Belgrado è stata l’intesa sull’allegato di implementazione (anche questo non firmato, ma con pesantissime conseguenze finanziarie in caso di mancato rispetto), raggiunto dopo una sessione di 12 ore di riunioni bilaterali e congiunte a Ohrid (Macedonia del Nord).
Il circolo di tensione non ancora risolto tra i due Paesi è iniziato il 26 maggio, con lo scoppio di violentissime proteste nel nord del Kosovo da parte della minoranza serba a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica. Proteste che si sono trasformate il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). Una situazione deflagrata dalla decisione del governo di Albin Kurti di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti il 23 aprile in una tornata particolarmente controversa: l’affluenza al voto è stata tendente all’irrisorio – attorno al 3 per cento – a causa del boicottaggio di Lista Srpska, il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo Vučić e responsabile anche dell’ostruzionismo per impedire ai sindaci di etnia albanese (a parte quello di Mitrovica, della minoranza bosniaca) di assumere l’incarico. Dopo il dispiegamento nel Paese balcanico di 700 membri aggiuntivi del contingente di riserva Kfor e una settimana di apparente stallo, nuove proteste sono scoppiate a inizio giugno per l’arresto di due manifestanti accusati di essere tra i responsabili delle violenze di fine maggio e per cui la polizia kosovara viene accusata di maltrattamenti in carcere.
A gravare su una situazione già tesa c’è stato un ulteriore episodio che ha infiammato i rapporti tra Pristina e Belgrado: l’arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi lo scorso 14 giugno. Un evento per cui i due governi si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine, in una zona di confine tra il nord del Kosovo e il sud della Serbia scarsamente controllata dalla polizia kosovara e solitamente usato da contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. Dopo settimane di continui appelli alla calma e alla de-escalation non ascoltati né a Pristina né a Belgrado, per Bruxelles si è resa necessaria una nuova soluzione ‘tampone’, ovvero convocare una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per cercare delle vie percorribili per ritornare fuori dalla “modalità gestione della crisi” e rimettersi sul percorso della normalizzazione dei rapporti intrapreso tra Bruxelles e Ohrid. A pochi giorni dalla riunione a Bruxelles del 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari da parte della Serbia, ma per il momento non è stato deciso nulla sulle nuove elezioni nel nord del Kosovo.
A causa del mancato “atteggiamento costruttivo” da parte di Pristina per la de-escalation della tensione, Bruxelles ha imposto a fine giugno misure “temporanee e reversibili” contro il Kosovo, che prevedono anche la sospensione del lavoro degli organi dell’Accordo di stabilizzazione e associazione. Per eliminare queste misure è stata concordata il 12 luglio una tabella di marcia con quattro tappe, ma ancora sono in vigore (come criticato dalla presidente kosovara, Vjosa Osmani, all’ultimo vertice Ue-Balcani Occidentali). A pochi giorni da un infruttuoso incontro di alto livello a Bruxelles, la situazione tra Serbia e Kosovo è però degenerata con l’attacco terroristico iniziato nelle prime ore del 24 settembre nei pressi del monastero serbo-ortodosso di Banjska, quando la polizia kosovara è arrivata per la segnalazione di un posto di blocco illegale al confine con la Serbia. Gli agenti sono stati attaccati da diverse postazioni da un gruppo di una trentina di uomini armati con un pesante arsenale di armi da fuoco che, dopo aver ucciso un poliziotto e averne feriti altri due, è entrato nel complesso monastico dove si trovavano pellegrini provenienti dalla città serba di Novi Sad. Per tutta la giornata sono proseguiti gli scontri durante “l’operazione di sgombero”, in cui sono morti tre dei terroristi.
Gli sviluppi del post-24 settembre hanno però tratteggiato un quadro molto più grave del previsto, con diramazioni evidenti nella vicina Serbia. Come evidenziato da un video girato da un drone nel giorno dell’attentato, tra gli attentatori all’esterno del monastero c’era anche Radoičić, vice-capo di Lista Srpska. Mentre la polizia kosovara ha scoperto un arsenale di armi ed equipaggiamento enormi a disposizione dei terroristi, venerdì (29 settembre) lo stesso Radoičić ha confermato di aver guidato l’attacco armato, mettendo in difficoltà il leader serbo. Questa confessione ha gettato una lunga ombra non solo sulla partecipazione della leadership dei serbo-kosovari in una strategia di destabilizzazione del Paese che potenzialmente va avanti da anni, ma soprattutto sulla capacità di Vučić di interferire negli affari interni di Pristina in modo più o meno nascosto e violento. A questo si aggiungono le rivelazioni sulla presenza anche di Bojan Mijailović (uno dei tre attentatori uccisi), guardia del corpo del capo dei servizi segreti serbi, Aleksandar Vulin, e soprattutto di Milorad Jevtić, stretto collaboratore del figlio del presidente serbo, Danilo Vučić. Secondo quanto emerso da un’indagine di Balkan Insight, le armi utilizzate nell’attacco erano state fabbricate in Serbia nel 2022 e alcuni proiettili di mortaio e granate erano stati riparati nei centri di manutenzione statali serbi nel 2018 e nel 2021.
A peggiorare infine le relazioni tra Kosovo e Serbia è stato l’avvertimento degli Stati Uniti di un “grande dispiegamento militare” serbo lungo il confine amministrativo con “un allestimento senza precedenti di artiglieria avanzata, carri armati e unità di fanteria meccanizzata”. La minaccia non si è concretizzata – secondo il premier Kurti era prevista un’annessione del nord del Kosovo con “un attacco coordinato su 37 posizioni distinte” – ma l’Unione Europea ha iniziato a riflettere sulla possibilità di imporre le stesse misure in vigore contro Pristina anche ai danni di Belgrado. “Dobbiamo assicurarci di utilizzare al meglio gli strumenti di cui l’Ue dispone per incoraggiare entrambe le parti a contribuire a una soluzione della crisi”, aveva spiegato a Eunews il portavoce del Seae, Peter Stano. Ma per il via libera alle misure “temporanee e reversibili” nei confronti della Serbia serve l’unanimità in Consiglio e al momento l’unico veto è stato posto dal più stretto alleato di Vučić dentro l’Unione: il premier ungherese, Viktor Orbán, che non definisce “assurdo e ridicolo” lo scenario tratteggiato dai funzionari europei e condiviso dagli altri 26 governi.
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