Francesco Ronchi
“La scomparsa dei Balcani”
Amir Alagić
“Un’infanzia lunga cent’anni”
Dalle mie parti “balcani” è un sostantivo e sta a intendere in dialetto ferrarese una categoria particolarmente feroce di zingari propensi alla faida e alla vendetta. Da due fronti opposti il saggio di Francesco Ronchi “La scomparsa dei Balcani” e il romanzo di Amir Alagić “Un’infanzia lunga cent’anni” di questo raccontano, scavando nel buco nero da sempre aperto proprio nel cuore dell’Europa e che continua incessantemente a esplodere.
Quando dall’Italia si parte per i Balcani, si comincia inesorabilmente da Trieste che è per la regione come Istanbul per l’Anatolia: la metropoli, l’unica riconosciuta tale, magnetica, irrinunciabile ma a tutti ugualmente straniera. Ronchi ne fa l’ago della sua bussola percorrendo da cima a fondo la penisola e la usa come cartina di tornasole per leggere i travasi di popolazione che, antichi e moderni, prima o poi si infrangono anche sul capoluogo giuliano. Come accade in queste settimane nei vecchi fabbricati asburgici dietro la stazione divenuti ricovero di migliaia di immigrati della rotta balcanica che la città si sforza di ignorare. Si potrebbe dire che i Balcani sono un susseguirsi di faglie dove una crolla inesorabilmente sulla successiva, dai passi del Vardar nell’antica Rumelia ottomana alle frontiere istriane. E proprio qui, nella città dove assieme a Fiume resta viva una presenza italiana Amir Alagić innesta la sua storia.
Vladimir e Slavko, i due protagonisti del romanzo, sono forse due anime della stessa persona o l’autore stesso, diviso in due dal suo essere perennemente in esilio, come racconta lui stesso. Nato a Banja Luka, Alagić ha scelto di vivere a Pola quasi per esclusione, incalzato dalle guerre iugoslave che lo hanno sospinto via dalla sua terra. Di Pola ha abbracciato tutte le contraddizioni facendosi figlio della sua storia, anche questa una faglia che dal romanzo emerge vivida e tragica. Come se nei Balcani fosse impossibile trovare un luogo privo di fratture, alla fine una vale l’altra e Alagić qui baratta la complessità bosniaca per un ugual peso di quella istriana. Siamo nell’Istria apparentemente placida e rustica, dalla terra rossa e dai vigneti lindi, luogo di spiagge e liete vacanze. Ma a guardare da vicino le sue pietre emergono i suoi aggrovigliati confini, che non sono solo quelli ovvi della slavità e della latinità, di Venezia e Vienna ma si intrecciano con le rotte marittime e il commercio, con le mai sopite migrazioni dai Balcani occidentali e con l’espansionismo magiaro. Fiume, antico porto d’Ungheria è ancora oggi guardata con sospetto da Zagabria che la considera sempre un poco infida e ribelle. Se la legione dannunziana aveva attecchito così bene nella città contesa non doveva essere stato un caso. Se è pur vero che del cosmopolitismo di queste terre resta solo la memoria, il peso specifico che la memoria assume da queste parti quasi lo ravviva. Alagić non può scansare le tragedie della terra in cui è venuto a vivere e dove i suoi personaggi si muovono come in un inseguimento. Le occupazioni, gli esodi e i massacri scorrono sullo sfondo del romanzo e se ne fanno quasi personaggi. La vicenda poliziesca alla fine è solo un gioco di specchi per raccontare la città di Pola, che qui assume una fisionomia quasi triestina, nel senso della sua indefinibilità.
L’intrigo è svelto e ben costruito e non si avvita nel vortice balcanico ma prende un respiro ampio proiettandosi nel cuore dell’invadente Occidente, a New York, più precisamente a Wall Street, dove il protagonista che vive da hippie e contesta il potere della finanza, viene stanato da un evento tragico che lo riporta a casa. La globalizzazione non attecchisce nei Balcani e Vladimir ricade prigioniero dei suoi confini. Ronchi cita il filosofo Carl Schmitt che li chiamava “spazi tellurici”, contraddistinti cioè dal primato della terra che si fa grammatica della politica. “Il potere equivale al territorio” nelle parole del Presidente croato Zoran Milanovic. Ma il racconto di Alagić ci mostra indirettamente anche una trasformazione nella percezione del territorio etnico che Ronchi descrive nel suo saggio. Le migrazioni suscitate dalle guerre iugoslave hanno fatto esplodere le comunità tradizionali disperdendole in luoghi ora avulsi dalle nazioni. E sono questi luoghi a risorgere, come Pola, nella loro nuova identità multipla. “Il luogo è di chi ci vive a prescindere dalle origini” osserva Ronchi individuando una nuova faglia balcanica che prende a spintoni la nazione.
Una famosa epistola di San Sava recita: ”In principio fummo confusi. L’Oriente pensava che fossimo Occidente mentre l’Occidente considerava che noi fossimo Oriente.” Una confusione che opprime ancora il mondo balcanico, così facilmente associato all’ingerenza russa. Ma anche questo pensiero facile va rivisto, scrive Ronchi. Perché spesso la russofilia serba è solo di facciata o è un vecchio riflesso iugoslavista di non allineamento. L’Occidente americano non è rimasto immune dalle sue invasioni balcaniche se, come racconta Ronchi, è dal villaggio macedone di Veles che partì una delle più potenti campagne di fake news a favore di Trump durante la campagna elettorale e se nelle campagne attorno a New York ancora oggi si ritrovano nei loro circoli gli eredi del Gottschee, la minoranza tedesca dei Balcani scacciata da Tito.
A trent’anni dalle guerre che dilaniarono la Iugoslavia i Balcani restano ai margini dell’Europa, promessi a un’adesione che non si concretizza. Ma la loro geografia è cambiata e i loro vecchi confini, fisici e mentali, all’apparenza così granitici, forse aspettano solo una spallata per crollare definitivamente.