Bruxelles – Nemmeno la Commissione Europea al momento sa fornire risposte per chiarire se l’intesa rispetta o meno il diritto comunitario e internazionale. Perché l’accordo sulla migrazione Italia-Albania siglato ieri (6 novembre) a Roma dai rispettivi capi di governo – Giorgia Meloni ed Edi Rama – non è pubblico, non se ne conoscono i contenuti se non per le ricostruzioni fornite in conferenza stampa dai due premier. “Siamo stati informati della firma, ora siamo in contatto con le autorità italiane, vogliamo conoscere i dettagli“, ha reso noto oggi (7 novembre) ai giornalisti di Bruxelles la portavoce della Commissione Ue responsabile per gli Affari interni e la migrazione, Anitta Hipper, mostrando non poca difficoltà nel stare al passo di domande precise su una questione quantomeno fumosa. Perché un caso (al momento ipotetico) come questo non si è mai visto e fino a quando non si avrà un testo a disposizione, sarà quasi impossibile formulare delle valutazioni legali in merito.
Questo non significa che non si possano elencare i punti di oscurità di un’intesa che, nei fatti, rappresenta il primo tentativo di un Paese membro Ue di esternalizzare l’esame delle richieste di asilo in un Paese terzo. Perché se “gli Stati membri non sono preclusi dall’adottare misure nazionali” in questa sfera politica, rimane pur sempre incontestabile il fatto che “questo deve essere fatto senza intaccare le procedure secondo l’acquis comunitario”, ha ricordato la portavoce dell’esecutivo Ue. Ecco perché Bruxelles è interessata da vicino dalle mosse di Roma, è chiede di avere “quanto prima” accesso ai contenuti dell’intesa con Tirana per valutare possibili violazioni del diritto dell’Unione Europea o di quello internazionale. “L’esternalizzazione [della valutazione delle richieste di asilo, ndr] solleva preoccupazioni, dobbiamo capire il piano italiano“, ha sottolineato Hipper, mettendo di nuovo in chiaro che “il diritto d’asilo dell’Ue si applica alle domande presentate sul territorio di uno Stato membro, ma non al di fuori di esso”.
È proprio da qui che bisogna partire. Secondo quanto riferito da Meloni e Rama l’accordo Italia-Albania si applicherebbe alle persone migranti salvate in mare – non arrivate sulle coste italiane – ma non è dato sapere al momento se si tratta anche di acque territoriali o solo internazionali. Perché nel primo caso si applica il diritto di asilo secondo la legislazione comunitaria (in particolare la direttiva procedure di asilo del 2013) e il principio del non-respingimento sancito dall’articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (Tfue). Nel secondo caso si applica il diritto internazionale e la fondamentale Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo (la cosiddetta Convenzione di Amburgo del 1979, ratificata dall’Italia ed entrata in vigore nel 1989), che prevede che gli sbarchi debbano avvenire nel primo “porto sicuro”, sia per prossimità geografica sia per rispetto dei diritti umani. In ogni caso l’intesa sulla migrazione riguarderebbe esclusivamente le navi dello Stato italiano (non delle Ong) – come quelle di Guardia Costiera, Guardia di Finanza e Marina Militare – esse stesse parte integrante del territorio italiano. Perciò si dovranno comunque applicare le norme minime per l’accoglienza dei richiedenti asilo previste dal Sistema Europeo Comune di Asilo (Ceas).
E questo porta a un nuovo punto di criticità: come dovrebbe funzionare l’esternalizzazione della migrazione secondo l’accordo Italia-Albania. I due premier hanno assicurato che i due centri in Albania – uno presso il porto di Shengjin per le procedure di sbarco e di identificazione e uno nell’entroterra di Gjader che funzionerà come un Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) – saranno realizzati e gestiti dall’Italia sotto la propria giurisdizione. In altre parole l’Albania cederà una parte della propria sovranità per realizzare e gestire queste due strutture tecnicamente sul suo territorio nazionale ma legalmente italiano. La questione è particolarmente complessa e dovrà essere sviscerata dai giuristi di entrambi i Paesi, sia sul fronte delle cessioni di territorio tra Stati nazionali che richiedono solitamente la firma di Trattati internazionali (di cui al momento non si è parlato), sia su come le due strutture non si configurino come centri di detenzione.
E poi c’è un’altra questione che rende altamente improbabile la messa a terra di un accordo così come presentato oralmente. Secondo quanto riferito da Meloni e Rama, il testo non si applicherebbe a minori, donne in gravidanza e altri soggetti vulnerabili. Oltre alla questione di come si dovrebbero dividere le persone salvate in mare nel corso di una stessa operazione tra diverse imbarcazioni (o con la stessa, per un viaggio di molti giorni), si innesta la questione degli sbarchi selettivi. Già a febbraio il Tribunale di Catania ha deciso che il decreto interministeriale del novembre 2022 era stato illegittimo, considerando anche la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, secondo cui l’accesso “senza ostacoli alle procedure di asilo” si applica “senza discriminazioni di sesso, età, disabilità, sessualità o altri motivi di discriminazione vietati”. Senza poi nemmeno considerare i costi per portare avanti e indietro persone richiedenti asilo (dall’Italia all’Albania), a cui è stato riconosciuto o che devono essere rimpatriate (dall’Albania all’Italia), né i tempi di espletamento delle procedure: si parla di tremila persone al mese per 36 mila all’anno, ma l’Italia non è mai riuscita a tenere questi ritmi e si rischierebbe di portare a sovraffollamento anche questi centri.
Infine ci sono i parallelismi e le differenze con il criticatissimo (anche dalla Commissione Ue) accordo tra Regno Unito e Rwanda per il trasferimento nel Paese africano delle persone migranti le cui domande di asilo devono ancora essere esaminate dal Regno Unito. Nel giugno dello scorso anno la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva ordinato a Londra di fermare le deportazioni per i rischi di violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e, a tutti gli effetti, nemmeno una persona è stata finora trasferita a Kigali. Tuttavia “dalle prime indicazioni non sembra essere uguale“, ha fatto notare la portavoce della Commissione, dal momento in cui per Londra il Rwanda è un “Paese sicuro” e in quel caso non si tratta di centri gestiti dal Regno Unito, ma di pura esternalizzazione in un Paese terzo. Eppure del ‘modello italo-albanese’ se ne sa così poco e sembra così complesso che non è previsto nemmeno dal documento del Berlaymont sugli scenari post-soccorso in mare.
Per tentare di fare chiarezza sulla questione la delegazione del Partito Democratico al Parlamento Europeo ha presentato un’interrogazione alla Commissione Europea. “Il protocollo rischia di presentare gravi criticità in merito alla violazione di norme europee e internazionali che impongono lo sbarco in un porto sicuro più vicino, il diritto a chiedere protezione internazionale e le garanzie a tutela della libertà personale”, ha attaccato il capo-delegazione, Brando Benifei: “Temiamo che l’accordo possa prefigurare un’ipotesi di respingimento collettivo”, ma anche “un rischio di detenzione generalizzata e una disparità di trattamento tra persone soccorse nel Mediterraneo da navi civili e altre soccorse da navi militari”. In questo scenario si potrebbe configurare “una lesione dei diritti di difesa e le garanzie della libertà personale previsti dalla Costituzione italiana e dalle norme europee e internazionali” in materia di rimpatri e procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. Ad attendere la risposta della Commissione sono anche altre capitali, come Copenaghen, Vienna e Berlino, che stanno pensando a modelli simili a quello britannico o, da oggi ancora più concretamente, a quello italiano.
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