Bruxelles – Era solo questione di tempo, di nuovo. E per l’attentato di Bruxelles di lunedì sera (16 ottobre) non è servito aspettare nemmeno troppo. Il momento della commemorazione delle due vittime svedesi della sparatoria è durato appena 24 ore, ora è già il tempo delle polemiche sui mancati rimpatri, sulla politica migratoria e sul collegamento (mai provato come fenomeno) tra persone in arrivo sul suolo comunitario, fondamentalismo islamico e attentati terroristici. Perché il background dell’autore dell’attacco “al cuore dell’Europa” ha fornito il gancio perfetto per questo tipo di narrazione e, allo stesso tempo, permette ai leader Ue di avvalersi di una retorica non necessariamente corrispondente alla realtà dei fatti, se non proprio fuorviante.
“Non possiamo negare il fatto che uno degli elementi decisivi di ciò che è successo è che l’autore dell’attentato era una persona che arrivava dalla migrazione illegale”, è stato l’esordio del premier belga, Alexander De Croo, in una conferenza stampa incentrata quasi esclusivamente su questo tema, al termine della cerimonia di commemorazione delle vittime questa mattina (18 ottobre) con l’omologo svedese, Ulf Kristersson. De Croo ha fatto leva su due dimensioni della politica migratoria: “La migliore protezione dei confini esterni e, ugualmente importante, una politica più risoluta e coordinata di rimpatri“. Assume particolare rilevanza il fatto che queste parole arrivino proprio dal premier belga, considerando che il suo Paese assumerà la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue a partire dal primo gennaio 2024 e sarà responsabile di portare a termine “con successo” il Patto migrazione e asilo: “Sarà la nostra principale priorità, sta evolvendo nella giusta direzione e il Belgio è impegnato più che mai nel fare la sua parte”.
Il prossimo presidente di turno del Consiglio dell’Ue ha voluto sottolineare che “abbiamo l’obbligo di dare protezione internazionale a chi ne ha diritto, ma d’altra parte chi non ce l’ha deve lasciare il territorio, come la persona in questione“. Il responsabile dell’attentato – poi ucciso ieri mattina – è Abdeslam Lassoued, un cittadino tunisino di 45 anni che viveva nel quartiere di Schaerbeek in modo irregolare: avrebbe presentato domanda di asilo nel novembre 2019, ricevendo decisione negativa, e cancellato dal comune nel 2021, senza però essergli mai stato notificato l’ordine di lasciare il Paese. “È finito nel mondo sommerso e i nostri servizi non sono riusciti a monitorare dove fosse”, ha ammesso il premier. De Croo ha parlato del caso singolo per riferirsi alla situazione generale: “Avrebbe dovuto lasciare territorio in modo volontario, ma spesso chiedere gentilmente non è abbastanza”.
Il premier svedese ha usato toni più duri: “Chi è sul territorio di un Paese membro in modo illegale, deve essere obbligato a lasciarlo“. Sulla questione si è poi soffermata a lungo anche la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, che ha puntato il dito sul fatto che “dobbiamo cambiare urgentemente” il quadro dei rimpatri possibili solo in modo volontario “anche per le persone che sono considerate una minaccia per la sicurezza nazionale e hanno ricevuto una decisione negativa”. La numero uno dell’esecutivo Ue ha rincarato la dose sostenendo che “se una persona è considerata una minaccia, gli Stati membri devono avere il potere per costringerla a partire“. Affermazione in realtà fuorviante, perché gli Stati hanno il potere di allontanare qualunque straniero che si ritenga possa causare pericolo per l’ordine pubblico. Non è, insomma, un problema legato ai rimpatri dei migranti, quanto piuttosto alla capacità degli Stati di individuare le persone pericolose.
Il primo ministro ed il ministro della Giustizia Vincent Van Quickenborne hanno però anche lamentato che se il Belgio avesse ricevuto maggiori informazioni, i servizi di sicurezza avrebbero potuto avere un quadro diverso dell’autore dell’attacco terroristico di lunedì, lamentando lo scarso flusso di informazioni tra i paesi dell’Ue sui residenti illegali.
Da quando è arrivato in Europa, Lassoued ha fatto richiesta di asilo in Norvegia (2011), Svezia (2012) e Italia (2014), secondo il segretario di Stato per l’Asilo e la Migrazione Nicole de Moor. Pur avendo trascorso due anni in carcere in Svezia, non era nella lista belga degli individui radicalizzati, non era noto per l’estremismo violento, non aveva condanne e non aveva precedenti penali. “Uno scambio di informazioni molto scarso”, detto Van Quickenborne. I servizi di sicurezza belgi non sapevano che l’uomo era stato detenuto in Svezia, ha aggiunto De Croo, mentre questa informazione “avrebbe potuto indurre i servizi a effettuare un’ulteriore analisi del rischio della persona”.
Ci sono anche lezioni da imparare in Belgio, ha ammesso De Croo. I posti nei centri chiusi per il rimpatrio forzato dovrebbero essere utilizzati meglio. In media, un quarto di questi posti è attualmente inutilizzato a causa di problemi di personale. Il primo ministro ha anche chiesto di collegare i database, compresi i provvedimenti di espulsione, con altri database della polizia e di studiare l’uso dei telefoni cellulari per rintracciare i residenti illegali.
Tutti i problemi delle promesse sui rimpatri
Ammesso e non concesso che il vero problema siano i rimpatri di persone migranti e non la politica di concessione della protezione internazionale o più in generale l’impostazione della politica migratoria dei Paesi membri dell’Unione Europea, il discorso dei tre leader è viziato da alcune omissioni, imprecisioni o sottovalutazioni della questione specifica. Più precisamente su quello che riguarda il Patto migrazione e asilo, sulle modalità con cui possono svolgersi i rimpatri, sui dati e sui costi. Prima di tutto bisogna ricordare lo stato dei negoziati inter-istituzionali su quello che dovrebbe diventare il quadro della politica migratoria dell’Unione. Nonostante nelle ultime settimane tutti i leader delle istituzioni comunitarie (compresa von der Leyen) abbiamo affermato che “tutti i dossier del Patto sono in fase di negoziato” tra Parlamento e Consiglio dell’Ue, la verità è un’altra e indica un’assenza pesante da quella tabella di marcia concordata lo scorso anno per adottare nove file entro la primavera 2024: proprio la Direttiva modificata sui rimpatri. L’Eurocamera non ha mai adottato la propria posizione negoziale e, a questo punto della legislatura, non c’è praticamente più tempo per iniziare e concludere i triloghi con i 27 governi. In altre parole, anche se il Patto andrà in porto, il “successo” non riguarderà la politica comune sui rimpatri (rimarrà invece in vigore la direttiva del 2008).
E poi c’è la questione operativa vera e propria. Rimpatriare una persona significa che deve essere accettata dal Paese di origine e “al momento è qualcosa di estremamente difficile”, ha ammesso il premier belga. È per questo che i rimpatri sono volontari, legati ad accordi bilaterali tra Stati e vincolati dal rispetto di una serie di condizioni che considerano la situazione personale anche in relazione al luogo di espulsione. Nessun governo può imporre secondo il diritto internazionale l’espulsione indiscriminata di una persona dal proprio territorio nazionale, senza prima aver verificato che quell’espulsione non metta la persona in una condizione di rischio. Di qui gli sforzi della Commissione per stringere accordi con i Paesi di origine, mentre De Croo invoca “più condizionalità sugli investimenti” dei Ventisette nel resto del mondo: “Tutti devono assumersi le proprie responsabilità”, ha suggerito implicitamente a von der Leyen un ricatto sui fondi di sviluppo ai Paesi africani e asiatici che si oppongono ad accordi di rimpatrio.
Anche nel caso di un cambio di marcia su questo fronte – nei primi sei mesi del 2023 l’Italia è riuscita rimpatriare solo il 12 per cento delle persone che hanno ricevuto un ordine di lasciare il Paese, per esempio – non bisogna dimenticare uno dei più grandi ostacoli alla politica dei rimpatri: i costi economici. Secondo quanto emerge dalla valutazione d’impatto della Direttiva modificata sui rimpatri commissionata dal Parlamento Europeo, senza nemmeno considerare il costo del viaggio nel suo complesso (stimabile su qualche migliaio di euro per persona), l’allontanamento non volontario comporterebbe una spesa finanziaria per il trattamento pre-espulsione pari a diverse decine di milioni di euro per Stato membro. L’indagine sui costi potenziali si basa su un’ipotesi “prudente” di un tasso del 60 per cento delle persone con ordine di rimpatrio “a rischio di fuga, non collaborativo o incapace di rispettare i termini della partenza volontaria” e, di conseguenza, che deve essere momentaneamente trattenuto in una struttura apposita. Solo l’Italia vedrebbe aumentare i costi di oltre 60 milioni di euro per le infrastrutture, il personale e il mantenimento delle persone nelle strutture, anche prima di iniziare a pensare alla spesa pro-capite per il loro rimpatrio.