Bruxelles – Dopo l’esplosione della violenza è ritornata una calma apparente tra Serbia e Kosovo, ma le istituzioni dell’Unione Europea sono perfettamente consapevoli che la situazione non è più gestibile come business as usual, come se un attentato terroristico nel nord del Kosovo e un ammassamento di truppe serbe al confine non ci fosse mai stato. È per questo motivo che, tra le difficoltà legate anche ai rapporti bilaterali tra gli Stati membri Ue e i due Paesi balcanici, a Bruxelles “è necessario riflettere sulla politica dell’Ue nei confronti di Belgrado e Pristina“. A confermarlo a Eunews è il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano, parlando della possibilità di imporre alla Serbia misure temporanee per quanto accaduto a partire dallo scorso 24 settembre.
“Dobbiamo assicurarci di utilizzare al meglio gli strumenti di cui l’Ue dispone per incoraggiare entrambe le parti a contribuire a una soluzione della crisi”, ha spiegato ancora il portavoce, senza sbilanciarsi eccessivamente su uno dei temi più scottanti in queste settimane. Ma ricordando che “fallimento della de-escalation porterà a conseguenze negative” e che Bruxelles “è pronta a valutare ulteriori misure nei confronti di entrambe le parti, se necessario, e questo significa anche nei confronti della Serbia“. Se al Kosovo sono già state imposte da fine giugno misure “temporanee e reversibili” – che sono tutt’ora in vigore “perché gli Stati membri non hanno ancora visto passi avanti sufficiente per la de-escalation” – nei confronti della Serbia non è ancora stato adottato un quadro di misure simili dopo l’attacco terroristico che potrebbe mostrare inquietanti connessioni con le autorità di Belgrado.
Da una parte c’è la netta opposizione dell’Ungheria di Viktor Orbán, stretto alleato del presidente serbo, Aleksandar Vučić, che ha già reso noto chiaramente che opporrà il proprio veto in caso di votazione in Consiglio su un’eventuale proposta formale di misure ai danni della Serbia (per questo tipo di decisioni di politica estera dell’Unione è necessaria l’unanimità tra i Ventisette). “È ridicolo, impossibile“, ha risposto il leader ungherese alle domande della stampa la scorsa settimana in occasione del Consiglio Europeo informale a Granada a proposito della possibilità di sanzioni contro Belgrado: “I serbi hanno subito regolarmente provocazioni negli ultimi due anni, il Kosovo si deve comportare in modo diverso, non deve provocare la Serbia”. Ma c’è anche una certa cautela da parte della Commissione Ue nel trattare la risposta all’attentato terroristico del 24 settembre nel nord del Kosovo: “L’Ue deciderà i prossimi passi e il modo migliore per contribuire a trovare una via d’uscita dalla crisi a seconda dell’esito delle indagini in corso sull’attacco“, ha precisato Stano. Mentre Pristina ha in mano le indagini, il Ministero degli Affari interni serbo ha trattenuto e rilasciato a Belgrado Milan Radoičić, vice-capo di Lista Srpska (il principale partito che rappresenta la minoranza serba in Kosovo e controllato da vicino dal presidente Vučić), il quale ha già confermato la sua partecipazione all’attacco terroristico.
È noto il fatto che gli Stati membri stanno discutendo della situazione – con Estonia, Lettonia, Lituania e Croazia schierate apertamente a favore di sanzioni – e che la Commissione Ue presenterà misure nel caso in cui i 27 governi decidano che, nell’attuale contesto di crisi, “la Serbia non sta facendo tutto il possibile per ridurre la tensione”. Si può solo intuire dalle parole del portavoce del Seae il fatto che a Bruxelles è in corso la stesura di una bozza di misure restrittive, su cui si è esposta in un‘intervista a Euractiv l’eurodeputata tedesca e relatrice per il Kosovo, Viola von Cramon-Taubadel (Verdi/Ale): “Le misure, che devono essere approvate dal Consiglio, sono già state preparate” e si tratterebbe più precisamente di “misure politiche e finanziarie” come la sospensione dei negoziati di adesione all’Ue e dei fondi destinati a Belgrado attraverso lo Strumento di assistenza pre-adesione (Ipa). “Sappiamo che non è nell’interesse del presidente Vučić, soprattutto da quando ha indetto le elezioni” per il prossimo 17 dicembre, ha rincarato la dose l’eurodeputata tedesca, ribadendo con forza che “questa volta è chiaro che la pazienza si sta esaurendo“.
Cos’è successo dopo il 24 settembre tra Serbia e Kosovo
Tutto è scaturito dall’attacco terroristico iniziato nelle prime ore del 24 settembre nei pressi del monastero serbo-ortodosso di Banjska, quando la polizia kosovara è arrivata per la segnalazione di un posto di blocco illegale al confine con la Serbia. Gli agenti sono stati attaccati da diverse postazioni da un gruppo di una trentina di uomini armati con un pesante arsenale di armi da fuoco che, dopo aver ucciso un poliziotto e averne feriti altri due, è entrato nel complesso monastico dove si trovavano pellegrini provenienti dalla città serba di Novi Sad. Per tutta la giornata sono proseguiti gli scontri durante “l’operazione di sgombero”, in cui sono morti tre dei terroristi.
Gli sviluppi del post-24 settembre hanno però tratteggiato un quadro molto più grave del previsto, con diramazioni evidenti nella vicina Serbia. Come evidenziato da un video girato da un drone nel giorno dell’attentato, tra gli attentatori all’esterno del monastero c’era anche Radoičić, vice-capo di Lista Srpska. Mentre la polizia kosovara ha scoperto un arsenale di armi ed equipaggiamento enormi a disposizione dei terroristi, venerdì (29 settembre) lo stesso Radoičić ha confermato di aver guidato l’attacco armato, mettendo in difficoltà il leader serbo. Questa confessione ha gettato una lunga ombra non solo sulla partecipazione della leadership dei serbo-kosovari in una strategia di destabilizzazione del Paese che potenzialmente va avanti da anni, ma soprattutto sulla capacità di Vučić di interferire negli affari interni di Pristina in modo più o meno nascosto e violento. A questo si aggiungono le rivelazioni sulla presenza anche di Bojan Mijailović (uno dei tre attentatori uccisi), guardia del corpo del capo dei servizi segreti serbi, Aleksandar Vulin, e soprattutto di Milorad Jevtić, stretto collaboratore del figlio del presidente serbo, Danilo Vučić. Secondo quanto emerso da un’indagine di Balkan Insight, le armi utilizzate nell’attacco erano state fabbricate in Serbia nel 2022 e alcuni proiettili di mortaio e granate erano stati riparati nei centri di manutenzione statali serbi nel 2018 e nel 2021.
Le relazioni tra Kosovo e Serbia sono però crollate durante lo scorso fine settimana, quando gli Stati Uniti hanno avvertito di un “grande dispiegamento militare” serbo lungo il confine amministrativo con “un allestimento senza precedenti di artiglieria avanzata, carri armati e unità di fanteria meccanizzata”. Mentre anche da Bruxelles è arrivato un avvertimento a Belgrado che “non c’è posto per armi e forze di sicurezza ammassate nel continente europeo, le forze militari serbe devono ritirarsi“, il Regno Unito ha annunciato che invierà un contingente per rafforzare la Kosovo Force (Kfor), la forza di pace internazionale a guida Nato che attualmente conta sul campo 4.811 soldati internazionali guidati dal generale italiano Michele Ristuccia. Secondo quanto denunciato dal primo ministro kosovaro, Albin Kurti, “sulla base della documentazione confiscata “l’attacco terroristico faceva parte di un piano più ampio per annettere il nord del Kosovo “attraverso un attacco coordinato su 37 posizioni distinte”, a cui sarebbe seguita la creazione di un corridoio verso la Serbia “per consentire il rifornimento di armi e truppe”.
Come fanno notare gli analisti sul campo, sembra più verosimile pensare che per la Serbia fosse più conveniente minacciare un attacco per imporre indirettamente alla Kfor di prendere il controllo della gestione dell’ordine pubblico nel nord del Kosovo, di fatto esautorando la polizia kosovara e impedendo a Pristina di esercitare la piena sovranità sul territorio rivendicato dopo la dichiarazione di indipendenza unilaterale del 2008. Uno scontro con la Nato scatenato da un’invasione effettiva del Kosovo potrebbe rappresentare per Vučić un suicidio politico – in vista di possibili elezioni anticipate al 17 dicembre – e per la sua credibilità internazionale. Anche se sostenuta dalla Russia, la Serbia non potrebbe sostenere l’isolamento internazionale, né sul piano militare né su quello economico.
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