Bruxelles – Non succede, ma se succede… si scontrerà contro il veto dell’Ungheria. Si iniziano ad alzare con sempre più insistenza a Bruxelles e in alcune delle capitali dell’Unione voci per l’imposizione di sanzioni Ue contro la Serbia di Aleksandar Vučić, di fronte a un’escalation di tensione con il Kosovo che in meno di due settimane ha visto un attentato nel nord del Paese indipendente da Belgrado dal 2008 e un ammassamento di truppe serbe al confine. Ma, nel caso in cui davvero la Commissione Ue decidesse di procedere su questa via, le misure restrittive sono destinate a essere bloccate dal muro alzato dal premier ungherese, Viktor Orbán, il più stretto alleato del presidente serbo.
Secondo quanto riporta il canale televisivo serbo Nova.rs, nel corso della riunione di venerdì scorso (29 settembre) il presidente Vučić ha chiesto apertamente al suo più stretto alleato all’interno dell’Ue di influenzare le decisioni a Bruxelles in caso prendessero una piega negativa per Belgrado. Più nello specifico, cosciente del fatto che all’interno delle istituzioni comunitarie si sta iniziando a ragionare sulla possibilità di introdurre quantomeno misure restrittive temporanee – se non sanzioni vere e proprie – il leader serbo ha esortato Budapest a mettere il veto nel caso di una votazione: per questo tipo di decisioni di politica estera dell’Unione è necessaria l’unanimità in seno al Consiglio. E proprio Orbán avrebbe rassicurato il partner sul fatto di non essere d’accordo a livello di principio con la politica di sanzioni dell’Ue – come dimostrato in diverse occasioni anche nel caso della Russia – e per questo di non aver nessun problema a opporsi a qualsiasi misura restrittiva contro Belgrado.
Si tratta di una doccia fredda per quattro capitali e per alcuni eurodeputati, che già ora stanno chiedendo a Bruxelles un’azione decisa dopo l’attentato terroristico del 24 settembre nel nord del Kosovo, in cui sono emersi inquinanti collegamenti con l’establishment politico della vicina Serbia. Estonia, Lettonia, Lituania e soprattutto Croazia – il cui premier, Andrej Plonković, si è detto “sicuro” che qualcosa arriverà dopo la fine delle indagini – stanno mettendo sul tavolo la richiesta urgente di sanzioni che, come già nel caso del Kosovo per gli eventi di fine maggio, dovrebbero assumere la forma di misure “temporanee e reversibili”. Ovvero la sospensione dei negoziati di adesione all’Ue e dei fondi destinati a Belgrado. Allo sbilanciamento di questi quattro Paesi membri si aggiungono anche le voci di alcuni eurodeputati, che alla sessione plenaria di Strasburgo martedì (3 ottobre) hanno invocato un cambio di rotta da parte dell’Unione. “Vučić l’ha fatto di nuovo, ha spinto il pulsante dell’escalation mettendo a rischio deliberatamente la pace, la sicurezza e anche i cittadini che dice di voler proteggere”, ha attaccato il socialista olandese, Thijs Reuten: “Sta giocando col fuoco e come Unione Europea dobbiamo mettere fine alla politica di appeasement, cosa ci impedisce di imporre misure punitive contro la Serbia?” Anche la collega tedesca in quota Verdi/Ale e relatrice per il Kosovo, Viola von Cramon-Taubadel, ha esortato la Commissione a “revocare le sanzioni” contro Pristina ed essere “più severa con il governo serbo”.
Da parte dell’esecutivo comunitario emerge per il momento molta prudenza, con il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano, che a più riprese questa settimana ha ribadito che “i responsabili non devono rimanere impuniti” e che “fino a quando le investigazioni sono in corso non presenteremo giudizi e verdetti su cosa è successo, dobbiamo stabilire i fatti e chi ha organizzato ed eseguito l’attacco terroristico”. Mentre Pristina ha in mano le indagini, il Ministero degli Affari interni serbo ha trattenuto e rilasciato a Belgrado Milan Radoičić, vice-capo di Lista Srpska (il principale partito che rappresenta la minoranza serba in Kosovo e controllato da vicino dal presidente Vučić), il quale ha già confermato la sua partecipazione all’attacco terroristico. Pur predicando calma, lo stesso portavoce del Seae ha però reso noto che “gli Stati membri stanno discutendo della situazione” e che “prenderanno una decisione in merito, se valuteranno di disporre di informazioni e prove sufficienti”. Il riferimento è alle “ulteriori misure da adottare” contro la Serbia: “Le presenteremo solo se i 27 Paesi membri decideranno che, nell’attuale contesto di crisi, la Serbia non sta facendo tutto il possibile per ridurre la tensione”.
Lo scenario di misure restrittive contro la Serbia è reso però quasi impossibile proprio dal veto a priori che l’Ungheria di Orbán è pronta a utilizzare. Da anni il premier ungherese ha portato avanti una politica di strette relazioni diplomatiche con Belgrado, che a Bruxelles desta non poche preoccupazioni non solo per le questioni dello Stato di diritto e dei diritti delle minoranze e delle comunità Lgbtqi+ nei due Paesi, ma anche per le posizioni quantomeno discutibili sulla Russia e sulle sanzioni internazionali. Lo stesso atteggiamento di Orbán è riconoscibile nei rapporti con il controverso presidente della Republika Srpska (l’entità a maggioranza serba in Bosnia ed Erzegovina), Milorad Dodik. Di fronte alle politiche secessioniste mostrate dal leader serbo-bosniaco e alla vicinanza sempre più esplicita all’autocrate Vladimir Putin dopo l’invasione russa dell’Ucraina, l’Unione Europea ha già un quadro di misure restrittive pronto per essere applicato ma, come fonti Ue hanno rivelato a Eunews, è l’Ungheria a non permettere il via libera. Esattamente come potrebbe accadere con il serbo Vučić, finche Orbán “gli coprirà le spalle” Dodik non dovrà preoccuparsi di misure punitive da parte di Bruxelles.
Cos’è successo dopo il 24 settembre tra Serbia e Kosovo
Tutto è scaturito dall’attacco terroristico iniziato nelle prime ore del 24 settembre nei pressi del monastero serbo-ortodosso di Banjska, quando la polizia kosovara è arrivata per la segnalazione di un posto di blocco illegale al confine con la Serbia. Gli agenti sono stati attaccati da diverse postazioni da un gruppo di una trentina di uomini armati con un pesante arsenale di armi da fuoco che, dopo aver ucciso un poliziotto e averne feriti altri due, è entrato nel complesso monastico dove si trovavano pellegrini provenienti dalla città serba di Novi Sad. Per tutta la giornata sono proseguiti gli scontri durante “l’operazione di sgombero”, in cui sono morti tre dei terroristi.
Gli sviluppi dell’ultima settimana hanno però tratteggiato un quadro molto più grave del previsto, con diramazioni evidenti nella vicina Serbia. Come evidenziato da un video girato da un drone nel giorno dell’attentato, tra gli attentatori all’esterno del monastero c’era anche Radoičić, vice-capo di Lista Srpska. Mentre la polizia kosovara ha scoperto un arsenale di armi ed equipaggiamento enormi a disposizione dei terroristi, venerdì (29 settembre) lo stesso Radoičić ha confermato di aver guidato l’attacco armato, mettendo in difficoltà il leader serbo. Questa confessione ha gettato una lunga ombra non solo sulla partecipazione della leadership dei serbo-kosovari in una strategia di destabilizzazione del Paese che potenzialmente va avanti da anni, ma soprattutto sulla capacità di Vučić di interferire negli affari interni di Pristina in modo più o meno nascosto e violento.
Le relazioni tra Kosovo e Serbia sono però crollate durante lo scorso fine settimana, quando gli Stati Uniti hanno avvertito di un “grande dispiegamento militare” serbo lungo il confine amministrativo con “un allestimento senza precedenti di artiglieria avanzata, carri armati e unità di fanteria meccanizzata”. Mentre anche da Bruxelles è arrivato un avvertimento a Belgrado che “non c’è posto per armi e forze di sicurezza ammassate nel continente europeo, le forze militari serbe devono ritirarsi“, il Regno Unito ha annunciato che invierà un contingente per rafforzare la Kosovo Force (Kfor), la forza di pace internazionale a guida Nato che attualmente conta sul campo 4.511 soldati internazionali guidati dal generale italiano Michele Ristuccia. Secondo quanto denunciato dal primo ministro kosovaro, Albin Kurti, “sulla base della documentazione confiscata “l’attacco terroristico faceva parte di un piano più ampio per annettere il nord del Kosovo “attraverso un attacco coordinato su 37 posizioni distinte”, a cui sarebbe seguita la creazione di un corridoio verso la Serbia “per consentire il rifornimento di armi e truppe”.
Come fanno notare gli analisti sul campo, sembra più verosimile pensare che per la Serbia fosse più conveniente minacciare un attacco per imporre indirettamente alla Kfor di prendere il controllo della gestione dell’ordine pubblico nel nord del Kosovo, di fatto esautorando la polizia kosovara e impedendo a Pristina di esercitare la piena sovranità sul territorio rivendicato dopo la dichiarazione di indipendenza unilaterale del 2008. Uno scontro con la Nato scatenato da un’invasione effettiva del Kosovo potrebbe rappresentare per Vučić un suicidio politico – in vista di possibili elezioni anticipate al 17 dicembre – e per la sua credibilità internazionale. Anche se sostenuta dalla Russia, la Serbia non potrebbe sostenere l’isolamento internazionale, né sul piano militare né su quello economico. “Ci aspettiamo che Belgrado cooperi in modo pieno e incondizionato”, ha ribadito lunedì il portavoce del Seae, facendo riferimento non solo ai responsabili per l’azione terroristica del 24 settembre, ma all’ammassamento di armi sul territorio del nord del Kosovo e di truppe serbe lungo il confine amministrativo (che da alcuni video sembrano effettivamente in fase di ritiro).
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