Bruxelles – Il Green Deal tra voglia di riuscire e il rischio di fallire. La Commissione von der Leyen ha voluto imprimere un forte tratto al proprio mandato attraverso un’agenda che si rivela sempre di più una vera e propria scommessa. A legislatura ormai agli sgoccioli, c’è chi avverte: i due obiettivi di sostenibilità e autonomia strategica potrebbero non essere raggiunti. E’ il centro studi e ricerca del Parlamento europeo a tracciare un bilancio, sia pur provvisorio ma comunque esplicativo, di una situazione dove l’Ue potrebbe uscirne tutt’altro che vittoriosa.
“Economia più verde e Ue più autonoma non sempre coincidono”, la premessa. Cui segue la precisazione: “Mentre la Commissione sottolinea la sinergia tra questi obiettivi, questo è solo uno dei possibili scenari per il futuro dell’Ue”. Che però potrebbe essere molto diverso. “Concentrarsi esclusivamente sull’ecologizzazione o sull’autonomia sono scenari ugualmente praticabili, così come lo è la possibilità di non raggiungere nessuno di questi obiettivi”.
Sul fronte della sostenibilità il vero punto interrogativo è rappresentato da costi e risorse. I primi sembrano troppi, le secondo insufficienti. Le stime dell’esecutivo comunitario, senza considerare l’inflazione, dicono che servono 520 miliardi di euro di investimenti aggiuntivi all’anno per i prossimi dieci anni solo per la transizione climatica, e 130 miliardi di euro di investimenti aggiuntivi per la transizione digitale. “Non è chiaro in che misura il settore privato, confrontato con un’inflazione elevata, prezzi energetici elevati e una forte concorrenza, sarà in grado di fornire i fondi necessari” per tradurre il Green Deal europeo e i suoi obiettivi in realtà, avverte il documento.
Del resto la questione, viene ricordato, è stata sollevata anche dalla Corte dei conti europea. I revisori di Lussemburgo, pronunciandosi in merito al raggiungimento degli obiettivi per il 2030 (taglio netto delle emissioni di gas a effetto serra del 55 per cento entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990), ha sottolineato che “finora abbiamo trovato poche indicazioni che gli ambiziosi obiettivi dell’Ue per il 2030 si tradurranno in azioni sufficienti“, e questo si spiega col fatto che “non ci sono informazioni secondo cui saranno messi a disposizione finanziamenti sufficienti per raggiungere gli obiettivi del 2030, in particolare da parte del settore privato”.
Le scelte in materia energetica dell’Ue seguite alla guerra russo-ucraina e le sue conseguenze hanno aggiunto anche un ulteriore elemento di criticità. Nella fretta e nella necessità di liberarsi dalla morsa del Cremlino e del suo fornitore di gas, l’Unione europea si è consegnata a Washington. “Mentre l’Ue ha ridotto drasticamente la sua dipendenza dalle importazioni di gas russo, ha sostanzialmente aumentato la sua dipendenza dalle importazioni di gas naturale liquefatto (Gnl) statunitense”. Il risultato è che “l’Europa è diventata la principale destinazione delle esportazioni di Gnl statunitense, superando l’Asia”.
Per gli analisti dell’europarlamento, “anche se la dipendenza dagli Stati Uniti non può essere considerata un rischio per la sicurezza, costituisce comunque un rischio economico, dato il prezzo sostanzialmente più alto del Gnl americano rispetto al gas russo”. Tutto ciò ha il potenziale di produrre un riposizionamento dell’industria, e di chi è chiamato a investire. Perché “i prezzi dell’energia strutturalmente elevati non solo fanno aumentare l’inflazione, ma possono anche indurre le industrie a delocalizzare in paesi con energia più economica, portando a una deindustrializzazione dell’Europa”.
L’Europa che cerca di rilanciare la sua industria potrebbe addirittura perderla. La sostenibilità è tutta da dimostrare, ma l’autonomia strategica non è meno in discussione. Allo stato attuale permane il “rischio di dipendenza economica dalla Cina per l’importazione di materie prime critiche”. Al momento l’Ue non può fare a meno della Repubblica popolare per queste materie prime fondamentali che sono “essenziali per le tecnologie verdi, come la produzione di pannelli solari, turbine eoliche e batterie”.
Poi c’è la nuova dipendenza energetica dagli Stati Uniti mostra i limiti dell’Ue. E’ proprio sul partner transatlantico che si pone l’accento nel documento di lavoro dell’europarlamento. Sulla capacità di trasformare il sistema produttivo in un sistema sostenibile e a basse emissioni di CO2, e sulla possibilità di essere autonomi nelle proprie azioni pesa il contesto geopolitico, che “non significa solo che l’Ue deve affrontare una Russia aggressiva e una Cina decisa”. L’Ue deve anche fare i conti con “una concorrenza geo-economica più forte da parte degli Stati Uniti”, che stanno rafforzando la propria base industriale e “proteggendo le tecnologie di prossima generazione”.
La partita della green economy l’Ue rischia dunque di perderla con il resto del mondo, anche con quella parte ‘amica’, e a causa di criticità strutturali tutte europee legate a società e mondo del lavoro. Perché sullo sfondo rimane la questione di un mercato del lavoro da riformare con manodopera sempre più difficile da reperire a causa dell’invecchiamento della popolazione che “genera meno tasse sul reddito per i governi”, e quindi “le tasse verdi e gli investimenti privati dovranno colmare il gap finanziario”. Investimenti che potrebbero non essere sufficienti.
L’Ue potrebbe dunque andare seriamente incontro a un fallimento della sua strategia. Perché “nonostante le ipotesi contenute nelle relazioni di previsione della Commissione” e i toni trionfalistici usati dal team von der Leyen secondo cui le sfide alla transizione verde possono essere affrontate, “ci sono seri segnali che dicono che tali sfide non lo saranno”. Lo dimostra anche il freno politico tirato tra gli Stati membri. Per ragioni di logiche elettorali, nazionali ed europee, Francia, Germania, Paesi Bassi, si sta considerando di mettere in ‘standby’ il Green Deal. A rischio.