Bruxelles – Ventiquattro ore dall’inizio dei bombardamenti, quarantotto dalla riapertura del corridoio di Lachin. Per il Nagorno-Karabakh gli ultimi due giorni potrebbero aver cambiato il corso del futuro, segnando una cesura dai risvolti ancora ignoti rispetto agli ultimi 31 anni. Il ministero della Difesa dell’Azerbaigian ha reso noto oggi (20 settembre) di aver interrotto le operazioni militari “antiterrorismo” iniziate ieri (19 settembre) nell’enclave separatista a maggioranza armena, dopo che le forze dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh si sono arrese all’esercito azero e hanno accettato un cessate il fuoco che sa di resa incondizionata e ritorno della regione sotto il controllo di Baku.
Un cessate il fuoco basato su tre punti, piuttosto chiaro per le sue implicazioni. “Le formazioni delle forze armate armene di stanza nella regione del Nagorno-Karabakh della Repubblica dell’Azerbaigian e i gruppi armati illegali depongono le armi, si ritirano dalle loro posizioni di combattimento e dagli avamposti militari e sono sottoposti a un disarmo completo“, mentre contemporaneamente “vengono consegnate tutte le munizioni e le attrezzature militari pesanti”, in un processo che “sarà assicurato in coordinamento con il contingente di pace russo”. Ma oltre allo scioglimento dei gruppi armati, ciò che si teme è un’umiliazione pianificata da parte del governo azero con l’obiettivo della pulizia etnica nella regione che per l’Armenia è considerata un luogo fondante della nazione (ma per la comunità internazionale fa parte dell’Azerbaigian). Nella giornata di domani (21 settembre) sarà convocato da Baku un dialogo per il futuro del Nagorno-Karabakh e della popolazione di etnia armena. Agli osservatori del Caucaso meridionale non può passare inosservata la coincidenza – se tale può davvero essere considerata – del tavolo sul futuro della regione separatista in Azerbaigian con il giorno dell’indipendenza dell’Armenia. Il 21 settembre.
In un confronto telefonico con il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, il numero uno del Consiglio Europeo, Charles Michel, ha invocato “un trattamento sicuro e dignitoso degli armeni del Nagorno-Karabakh”. Michel, il primo sponsor del dialogo tra Baku e Yerevan nell’ultimo anno e mezzo, ha avvertito che “i loro diritti e la loro sicurezza devono essere garantiti in modo credibile“, compreso “l’accesso all’assistenza umanitaria immediata”. Appena dopo l’annuncio del cessate il fuoco, a Bruxelles si è tenuto un incontro straordinario del Comitato politico e di sicurezza (Cps), il comitato del Consiglio responsabile della politica estera e di sicurezza comune dell’Unione. Lo ha reso noto il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano, in un punto con la stampa: “È importante che non sia usato come pretesto per l’esodo della popolazione locale degli armeni del Nagorno-Karabakh, bisogna tornare al dialogo”. Mentre i leader delle istituzioni comunitarie e dei Ventisette si stanno confrontando sulla situazione a New York a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha incontrato il ministro degli Esteri armeno, Ararat Mirzoyan: “L’Ue osserva da vicino la situazione e gli Stati membri decideranno i prossimi passi in base agli sviluppi sul campo“, ha precisato Stano.
Ma nel frattempo migliaia di abitanti del Nagorno-Karabakh (che conta una popolazione di circa 120 mila abitanti) si sono riversate nell’aeroporto di Stepanakert, la capitale della regione separatista. Nonostante il testo delle condizioni del cessate il fuoco siano state trasmesse dal contingente russo presente sul campo dal 2020, da Yerevan arrivano critiche a Mosca per non essere più in grado di agire come garante della sicurezza degli armeni dopo l’invasione dell’Ucraina e di non aver fatto nulla per impedire alle forze di Baku (sostenute dalla Turchia) di bombardare l’exclave sul territorio azero. “Non siamo stati in alcun modo coinvolti e non abbiamo preso parte alle discussioni”, ha precisato il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, che sta già iniziando a subire i contraccolpi dell’invasione-lampo di una regione storicamente al centro del conflitto tra Baku e Yerevan dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. L’opposizione chiede già al premier di dimettersi per non essere riuscito a proteggere i connazionali del Nagorno-Karabakh.
Le notizie che arrivano dal Caucaso meridionale rappresentano però una doccia fredda diplomatica per l’Unione, in particolare se si considerano i risvolti a livello di immagine per la nuova politica energetica impressa dalla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. Nel luglio dello scorso anno la numero uno dell’esecutivo comunitario si era recata in visita ufficiale in Azerbaigian per siglare un accordo sulla fornitura di gas naturale e – nonostante le perplessità degli analisti sul rischio di sostituire Putin con un altro autocrate – aveva definito Aliyev “un partner affidabile e degno di fiducia”. Di fronte alle critiche della stampa di Bruxelles per l’aggressività militare di quel “partner affidabile”, i portavoce della Commissione Ue hanno levato gli scudi, spiegando che non c’è stata alcuna sostituzione della dipendenza del gas: “Le forniture dall’Azerbaigian rappresentavano circa il 3 per cento delle importazioni totali dell’Ue nel 2022, rispetto al 2 per cento nel 2021, e ci aspettiamo di raggiungere un livello simile quest’anno”, ha anticipato il portavoce responsabile per l’Energia, Tim McPhie. Nonostante ci sia stato un aumento delle importazioni – da 8 miliardi di metri cubi nel 2021 a 11,3 nel 2022 – “non è stato significativo in termini di percentuale totale”.
Il conflitto in Nagorno-Karabakh
Tra Armenia e Azerbaigian è dal 1992 che va avanti una guerra congelata, con scoppi di violenze armate ricorrenti incentrate nella regione separatista del Nagorno-Karabakh. Il più grave degli ultimi anni è stato quello dell’ottobre del 2020: in sei settimane di conflitto erano morti quasi 7 mila civili, prima del cessate il fuoco che ha imposto all’Armenia la cessione di ampie porzioni di territorio nel Nagorno-Karabakh. Dopo un anno e mezzo la situazione è tornata a scaldarsi a causa di alcune sparatorie alla frontiera a fine maggio 2022, quando è diventato sempre più evidente che la tensione sarebbe tornata a salire. La priorità dei colloqui di alto livello stimolati dal presidente del Consiglio Europeo è stata posta sulla delimitazione degli oltre mille chilometri di confine. Tuttavia, mentre a Bruxelles si sta provando da allora a trovare una difficilissima soluzione a livello diplomatico, da settembre sono riprese le ostilità tra Armenia e Azerbaigian, con reciproche accuse di bombardamenti alle infrastrutture militari e sconfinamenti di truppe di terra.
La mancanza di un monitoraggio diretto della situazione sul campo da parte della Russia – che fino allo scoppio della guerra in Ucraina era il principale mediatore internazionale – ha portato alla decisione di implementare una missione Ue. Dopo il compromesso iniziale con Yerevan e Baku raggiunto il 6 ottobre a Praga in occasione della prima riunione della Comunità Politica Europea, 40 esperti Ue sono stati dispiegati lungo il lato armeno del confine fino al 19 dicembre dello scorso anno. Una settimana prima della fine della missione l’Azerbaigian ha però bloccato in modo informale – attraverso la presenza di pseudo-attivisti ambientalisti armati – il corridoio di Lachin e da allora sono in atto forti limitazioni del transito di beni essenziali come cibo e farmaci, gas e acqua potabile. Gli unici a poterla percorrere sono i soldati del contingente russo di mantenimento della pace e il Comitato internazionale della Croce Rossa.
A seguito dell’aggravarsi della situazione nel corridoio di Lachin, il 23 gennaio è arrivata la decisione del Consiglio dell’Ue di istituire la missione civile dell’Unione Europea in Armenia (Euma) nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune, con l’obiettivo di contribuire alla stabilità nelle zone di confine e garantire un “ambiente favorevole” agli sforzi di normalizzazione dei due Paesi caucasici. Ma la tensione è tornata a crescere lo scorso 23 aprile, con la decisione di Baku di formalizzare la chiusura del collegamento strategico attraverso un posto di blocco, con la giustificazione di voler impedire la rotazione dei soldati armeni nel Nagorno-Karabakh “che continuano a stazionare illegalmente nel territorio dell’Azerbaigian”. Da Bruxelles è arrivata la condanna dell’alto rappresentate Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, prima della ripresa delle discussioni a maggio e un nuovo round di negoziati di alto livello tra Michel, Aliyev e Pashinyan il 15 luglio.
L’alternarsi di sforzi diplomatici e tensioni crescenti sul campo ha portato a uno degli episodi più allarmanti almeno fino a oggi, che ha messo in pericolo gli osservatori Ue presenti dallo scorso 20 febbraio in Armenia per contribuire alla stabilità nelle zone di confine. Il 15 agosto una pattuglia della missione Euma è rimasta coinvolta in una sparatoria dai contorni non meglio definiti (entrambe le parti, armena e azera, si sono accusate a vicenda), senza nessun ferito. L’evento aveva provocato qualche imbarazzo a Bruxelles, dopo che Yerevan aveva dato la notizia secondo cui l’esercito azero aveva “scaricato il fuoco contro gli osservatori dell’Ue”. Sulla stessa pagina X della missione civile Ue in Armenia era apparso un post (poi cancellato) con un perentorio “falso”, ma poche ore più tardi è stato pubblicato l’aggiornamento di rettifica che ha dato ragione ai portavoce armeni, almeno nella parte in cui è stata confermata la presenza della pattuglia europea durante gli spari, senza nessun riferimento alla responsabilità azera. Un mese più tardi lo scenario dei rapporti tra i due Paese e delle forze sul campo è completamente cambiato.