Bruxelles – La forza lavoro di cui ci sarebbe bisogno non c’è, si fa fatica a trovarla. In attesa di reperirla, prima di investire in formazione professionale, si chiedono sacrifici ai dipendenti mettendoli a fare altro, e quando finalmente si trova la figura ricercata, si fa fatica a trattenerla. Eccole le piccole e medie imprese dell’Ue (Pmi), come fotografate nell’ultimo sondaggio Eurobarometro dedicato alla carenza di manodopera qualificata realizzato nell’ambito dell’anno europeo delle competenze.
C’è una forte discrepanza tra il dire e il fare, nel mondo delle imprese. Se in linea di principio otto imprese su dieci (82 per cento) nell’Ue dichiara che è “molto importante” avere nella propria azienda personale con le giuste conoscenze professionali, con ben dodici tessuti industriali nazionali con valori sopra la media (Austria, Cipro, Portogallo, Irlanda, Malta, Italia, Grecia, Spagna, Svezia, Croazia, Francia e Polonia), nella pratica però si agisce diversamente. In caso di carenza di personale richiesto, la prima cosa per cui le Pmi tendono a optare è “fare un miglior uso del talento interno”, che, sottolinea Eubarometro, si traduce in “mobilità e rotazione” professionale.
Si chiedono dunque più sacrifici ai propri dipendenti, a cui viene imposto di fare altro rispetto a quanto preposto originariamente. E’ quello che dichiara quasi la metà dei piccoli e medi imprenditori intervistati nell’Ue (43 per cento), con sistemi Paesi, come il caso italiano (54 per cento), in cui più della metà delle imprese ritiene di dover lavorare in tal senso. Investire in formazione è la strategia principale solo per Malta, Paesi Bassi e Portogallo. Mentre solo il tessuto belga preferisce avviare collaborazioni con enti di istruzione e formazione.
Questo perché la flessibilità rimane la parola d’ordine dell’impresa per i propri dipendenti. Un esempio lampante, in tal senso, è offerto dell’attitudine verso pratiche che possano rendere più ecologico il modello produttivo. Di fronte al Green Deal e all’ampia agenda per la transizione dell’Unione europea, il ‘business model’ non cambia.
Tra capacità ‘soft’ (flessibilità, comunicazione, lavoro in equipe), capacità ‘hard’ (figure tecniche), capacità digitali e capacità green, in nessun Paese Ue la sostenibilità viene indicata come opzione preferita e preferibile. Per tutti la flessibilità rimane la cosa più importante, con le competenze green spesso all’ultimo posto. Una situazione valida anche per l’Italia, dove prima viene la flessibilità, poi la conoscenza informatica, quindi tecnici, e infine lavoratori con competenze sostenibili.
Il risultato è che alla fine più di un’impresa su due, nell’Ue (53 per cento), ammette di avere difficoltà a mantenere in azienda le persone con le giuste competenze e di cui avrebbero bisogno. Un fuga che in Italia riguarda più di sei Pmi su dieci (63 per cento), e che accende la luce dei riflettori su un sistema di fare impresa probabilmente da rivedere. La sfida non è nuova e a distanza di anni, nonostante l’impulso del Green Deal e le nuove figure professionali che richiede, non sembra essere superata.