Bruxelles – La politica migratoria dell’Unione Europea e il Patto migrazione e asilo sono ancora ostaggio delle minacce e dei ricatti di primi ministri come l’ungherese Viktor Orbán e il polacco Mateusz Morawiecki, impegnati in una costante e perenne campagna elettorale interna si nutre della contrapposizione con Bruxelles. Ma di riflesso anche il presunto coordinamento tra forze sovraniste ne esce sfilacciato, con la prima ministra italiana, Giorgia Meloni, che si ritrova nel campo diametralmente opposto rispetto ai suoi due più stretti alleati politici. Per un’Italia che ha accettato l’accordo dell’8 giugno in Consiglio Affari Interni sul Patto migrazione e asilo, ci sono un’Ungheria e una Polonia che al vertice dei leader Ue hanno fatto muro sul capitolo migrazione delle conclusioni, tenendo in ostaggio tutte le altre discussioni (che verosimilmente si sarebbero potute concludere in una sola giornata di confronto).
Nella prima giornata di Consiglio Europeo di ieri (29 giugno) le discussioni sul capitolo migrazione sono iniziate poco dopo le 17.30 e hanno occupato tutta la serata e le prime ore della notte, fino a quando la presidenza del Consiglio verso l’una di notte non ha deciso di riaggiornare il confronto sullo stesso tema a questa mattina (30 giugno). Più di sette ore e mezza per non arrivare a un’intesa su soli due punti delle conclusioni – nemmeno troppo controversi – proprio per l’opposizione di Polonia e Ungheria. “Al Consiglio Europeo è in corso una grande battaglia sul Patto per la migrazione, Bruxelles spinge per un testo a favore dell’immigrazione, mentre il duo polacco-ungherese combatte e resiste insieme”, ha twittato nel pieno delle discussioni il portavoce del governo di Budapest, Balázs Orbán, ribadendo al termine della prima giornata che si è svolta tra i leader una “dura lotta contro le forze pro-migrazione di Bruxelles”. Come confermano alti funzionari Ue, l’unica intesa possibile tra i Paesi membri ormai è sulla dimensione esterna della migrazione, mentre su quella interna “dobbiamo ragionare a Venticinque e non a Ventisette”. Per uscire dallo stallo sarebbe stato lo stesso Orbán ad aver proposto di cancellare le conclusioni sulla migrazione e di sostituirle con conclusioni della presidenza. Il che significa che il numero uno del Consiglio, Charles Michel, dovrebbe pubblicare una sua dichiarazione che non richiede nessun voto, maggioranza o unanimità (a differenza delle conclusioni vere e proprie).
A queste posizioni si aggiungono quelle di Varsavia. Proprio il primo ministro Morawiecki è arrivato a Bruxelles con un “piano per la sicurezza delle frontiere” basato su pochi elementi fattuali basati su quanto previsto dall’intesa dei 27 ministri degli Interni sui due file-chiave del Patto migrazione e asilo, il Regolamento per la gestione dell’asilo e della migrazione (Ramm) e il Regolamento modificato sulle procedure di asilo (Apr). I suoi quattro “no” – ai ricollocamenti “forzati”, alla violazione del diritto di veto e del principio dell’indipendenza delle decisioni per gli Stati membri e alle sanzioni imposte da Bruxelles – non trovano un riscontro né in quanto proposto dalla Commissione Ue né in quanto stabilito nell’orientamento generale del Consiglio. In primis perché il principio concordato è quello della solidarietà obbligatoria, non dei ricollocamenti obbligatori: questo significa che un Paese membro può decidere in quale forma mostrare solidarietà ai Paesi di primo arrivo – accogliendo persone o fornendo un contributo finanziario – e perciò non ha nemmeno senso parlare di “sanzioni imposte da Bruxelles” se non in termini di propaganda interna (in questo senso allora un qualsiasi governo potrebbe definire allo stesso modo i contributi nazionali al bilancio pluriennale Ue). La questione del veto è legata invece alla decisione interna al Consiglio di procedere a maggioranza qualificata sul piano legislativo, che è ciò che davvero conta per il Patto migrazione e asilo.
Ecco perché è sul piano della propaganda interna che va letta tutta la battaglia anti-migrazione. Quasi tutti i file del Patto sono ormai in fase di trilogo (i negoziati inter-istituzionali tra Parlamento e Consiglio dell’Ue) e la maggioranza qualificata nel lavoro dei 27 ministri degli Interni non è in discussione. Ma il governo Morawiecki ha tutti gli interessi di mantenere alta la tensione con Bruxelles per questioni puramente di politica interna, considerato il fatto che in autunno si terranno le elezioni in Polonia (la data non è ancora stata fissata, ma si dovrebbero svolgere non prima dell’11-12 novembre). Contro un’agguerrita opposizione unita nella Piattaforma Civica guidata dall’ex-presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk – sceso in campo nel 2021 per “combattere il demone” del Partito Giustizia e Libertà di Morawiecki – il premier polacco sta puntando tutte le sue fiche su ciò che a livello propagandistico gli riesce meglio: alzare la tensione con le istituzioni comunitarie per serrare le fila nazionaliste alle urne. Anche se questo significa polemizzare su questioni non sul tavolo – “per noi i ricollocamenti obbligatori sono la linea rossa, non li accetteremo mai”, ha ribadito a margine del Consiglio il ministro per gli Affari europei, Szymon Szynkowski vel Sek – o spaccare ancora di più il fronte sempre più inesistente dei sovranisti. Di cui la premier Meloni è figura di spicco, in qualità di presidente del Partito dei Conservatori e Riformisti Europei, la stessa famiglia politica a cui aderisce il PiS di Morawiecki.